Nota:
Luna persciente
fa parte della trilogia dal titolo ‘De requie et natura’, di cui il
il
primo libro è Scribeide (1985-1989),P:Manni ed.,1993.
Le
orbite
è apparso in Le voci della poesia, Elytra ed.,1992
La
chiusa eponima ‘Luna persciente’ è compresa in Gruppo93, Le
tendenze attuali della poesia e della narrativa,P.Manni ed.,1993.
Prefazione
di Guido Guglielmi
Perché
si scrivono poesie? Si può pensare che ci siano cose da dire che non
possono essere dette se non in forma poetica. E naturalmente la forma
poetica che qui intendiamo sta a un diverso livello rispetto alla
distinzione (di genere) di poesia e prosa. Ma può accadere –ed è
accaduto storicamente- che le cose da dire –i cosiddetti contenuti-
diventino estranei e remoti, che non resistano all’azione storica. Non
c’è più allora alcun cammino che conduca ad esse. Non ci sono più
contenuti articolabili. Ciò accade quando i topoi che formano la
poesia e la letteratura hanno perso ogni individualità, ogni appartenenza
a una cultura, e quindi non li si può più usare. E questa è
probabilmente la condizione nostra, e cioè di un tempo che dispone del thesaurus
delle forme e dei topoi, che ha classificato e ordinato in schede
il proprio sapere letterario, ma insieme lo ha depotenziato e appiattito.
Stiamo appunto parlando della condizione postmoderna, il cui contrassegno
maggiore è dato proprio dalla sovrapposizione e contaminazione di tutte
le culture, della mescolanza degli stili, ognuno dei quali si offre in una
dimensione detemporalizzata. Il postmoderno è soprattutto una poetica di
riuso dei segni. Gli stili strappati dai loro contesti si rianimano
secondo le convenienze dell’attualità. La ricezione effimera diventa il
loro nuovo fondamento. Tanto che c’è stato chi ha sostenuto che tutte
le opere sono produzione lettori; che le opere si risolvono nella
puntualità della fruizione (degli atti di lettura). Davanti al processo
di invecchiamento che ha colto la letteratura e la poesia, l’esperienza
estetica ha finito per ritirarsi nelle sensazioni che i lettori ricavano
dalle opere. Ed è quindi tornato di moda il linguaggio dei sentimenti,
delle emozioni, degli stati vissuti (degli Erlebnisse), quasi che
il testo fosse in primo luogo un fatto di consumo. O magari una tabula
rasa sulla quale inscrivere le nostre proiezioni. Dello spessore storico
dei testi –e dello spessore storico dell’uomo- resta invece ben poco.
E infatti è stata teorizzata una priorità dell’aisthesis sulla poiesis,
e ciò proprio in mancanza di quella tradizione che potrebbe fondarla (e
rispetto alla quale la distinzione di aisthesis e
poiesis diventerebbe
quanto meno secondaria).
Ma alla domanda sul perché della poesia, si può rispondere, ed è
stato risposto, che la poesia non ha alcun senso da proporre: ciò che
poeticamente importa è un modo di fare; non la cosa da dire, ma il come
dirla. E’ questo il coté formalistico, intenzionalmente
anticontenutistico, della letteratura. Ma se consideriamo le teorie del
formalismo letterario( quelle che prenderanno il nome di strutturalismo)
ci accorgiamo che il loro anticontenutismo era poi un’opera di
distruzione dei significati. Le posizioni formalistiche prendevano atto
del fatto che ogni riproposta di significati, ogni teoria e pratica di una
lingua della poesia, in realtà si rifiutava di riconoscere che una lingua
della poesia non c’è più ( a questo misconoscimento Freud dava il nome
di Verleugnung), e perciò costruiva dei feticci, delle
poesie-feticcio. Di fatto il formalismo, che –conviene dire- prima che
un metodo e che una disciplina scientifica è stato una grande poetica, ha
applicato un modo parodico a tutta la letteratura. La sottolineatura dei
nessi formali, il cosiddetto straniamento, mirava a destituire la
letteratura, a farne una pratica critica nella dinamica dei linguaggi, a
sottrarla a ogni positività. Mentre la letteratura perdeva il suo
tradizionale statuto, un’ideologia letteraria tendeva a relegarla in un
ambito specifico (l’estetica), a farne un’attività –ideale o
spirituale- al di sopra di ogni uso o funzione, o deputata a conciliare, o
a occultare, lacerazioni reali e storiche. Ed ecco allora che il compito
della letteratura d’avanguardia diventò quello di umiliare se stessa,
di scoprire al proprio interno le tensioni, i conflitti,
l’incompiutezza. E proprio attraverso la parodia, l’esposizione arguta
delle proprie forme, il mostrare che ogni a priori (l’uomo, lo
spirito,i valori) è vuoto e che ogni senso è prodotto di
un’operazione, la poetica si faceva oppositiva, e si alleava con una
politica. La parodia si dimostrò sia un mezzo di demistificare la
letteratura, sia un mezzo di salvarla, di renderla attiva e storicamente
vitale. Essa poteva esercitarsi sul già fatto, sugli effetti di senso
riconosciuti e naturalizzati, e nello stesso tempo aprirsi
all’esperimento, all’avventura, all’esplorazione di mondi non
intenzionali, agli orizzonti e alle latenze del linguaggio.
L’ultima generazione di poeti, e tra questi Biagio Cepollaro,
venuta dopo le esperienze della neoavanguardia degli anni’60,si è
trovata davanti a una situazione più difficile e tuttavia a suo modo
stimolante, se è vero che sono proprio le difficoltà che si incontrano a
esigere le invenzioni meno prevedibili. Ogni operazione critica sembrava
essere riassorbita nell’istituzionalità del linguaggio poetico. La
pratica di distruzione dei significati appena riconosciuta, era subito
come cambiata di segno. Il gusto dei rovesciamenti, le contraffazioni, i
travestimenti erano diventati macchine retoriche. Gli asintattismi, le
tecniche dell’incongruo e dell’eterogeneo erano diventati maniere. E
appunto Cepollaro ha cominciato col dichiarare (lo ha ricordato
opportunamente Luperini) che il suo problema oramai non era più
‘cosa’ dire e nemmeno ‘come’ dire, ma ‘con che cosa dire’. Il
problema di Cepollaro non è infatti un problema di contenuti, divenuti
sempre più banali quanto più si vogliono carichi di responsabilità, e
neppure un problema di forme, dato che lo stesso ‘grado zero’ della
scrittura –o dell’ideologia letteraria- è divenuto l’indice più
certo della scrittura. le forme, in altre parole, sono subito percepite
come fatto di connotazione. Quella che si chiama funzione poetica
neutralizza la funzione critica e produttiva. (E’ il caso del Kitsch).
Cepollaro si è quindi chiesto quali potevano essere oggi i materiali
della poesia. E si è rivolto alle più diverse fonti: ai testi illustri,
ai dialetti (oramai testimoni di culture in via di sparizione), alle
lingue dell’attualità mediale e multimediale. I suoi sono spezzoni di
linguaggio, parole orfane. Una massa di frammenti è convocata sulla
pagina, non tanto a mimare una impossibilità di comunicazione, quanto a
creare ostacoli a ogni possibilità di comunicazione. Nella Luna
persciente, proseguendo il lavoro di Scribeide (i due poemetti
appartengono a una stessa fase sperimentale), Cepollaro in verità
irrigidisce un suo atteggiamento di rifiuto. Egli compone i suoi testi in
ampi periodi ritmici ben misurati, secondo lunghe sequenze poematiche,
contraffà rigore e metodo, ma ciò che racchiude nei suoi cerimoniali
verbali non è il vuoto, ma un gesto ostile. Se sollecita il lettore (e a
questo servono i cerimoniali verbali), non è per cercare una complicità,
ma per porlo davanti a una provocazione, a un idioletto non
dialettizzabile. Potremmo quindi considerare questi testi di Cepollaro
come dei modi di interrogare il linguaggio al di fuori delle vie
convenzionali ed accertate, e cioè come dei modi di fare precipitare le
possibilità del linguaggio dall’orizzonte delle sue impossibilità.
Come dei prolegomeni, in sostanza, per una poesia futura (laddove è solo
il presente che sembra oggi trovare ascolto).
Guido Guglielmi
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