La poesia di Biagio Cepollaro

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Versi Nuovi (recensione)

Giuliano Mesa su il verri, n°20, novembre2002

(...)

 

non riusciremo mai a fare come le api e dicono che quelle e simili saranno

a coprire distanze i milioni di anni non noi che l’essenziale per sopravvivere

 

nel tempo

 

ignoriamo                                                                                            

 

piove non piove un po’di sabbia sui vetri dal deserto del resto

spirante del mondo piove non piove qualche naso schiacciato

 

contro le finestre

 

ci deve essere un altro modo del bene ci deve essere un altro modo

per far defluire tutta quest’acqua  c’è un inizio per ogni inizio

 

 

nella storia il bene non ha inizio il bene è altrove

 

(da Versi Nuovi, in 'Qui- Appunti dal presente,3,inv.2000-20001,8-11.)

 

 (...)           

 

 

                                (se dovessi finire sarei all’inizio dell’inizio anche con te)

 

per questo non importa che a finire

la poesia ho solo

dieci minuti

per questo riuscissi a chiudere come se l’iniziassi

 

a telefono ti dicevo che anch’io

sono oggetto strano

ora

per te

che il sesso non ha più vista

che tutto è odorato

e tatto

che è tutto da cominciare, appunto

che nuovamente

ora

davvero non si sa

 

(che meno male)

 

(Da: Tutto questo sparirà, in Versodove',11,aut.-inv.1999-2000,26-27.)

 

(...) I versi nuovi di Cepollaro provengono da un rigoroso esercizio di silenzio, di ascolto del sentire.Risillabando lacerti di 'linguaggio comune', metodicamente sottratti a una cantabilità che potrebbe subito riassordarli, e reintonando, con cautela e timore, accenni di canto - dentro due flussi d'ascolto non separati, non conciliati unificandoli, Cepollaro tenta la ri-costruzione di uno spazio linguistico accomunante, condivisiile, ma senza 'anticiparne' l'architettura. Se una forma potrà consolidarsi, ciò avverrà per lenta, paziente secrezione della materia cautamente rinominata. Vi è ancora, in queste poesie, un ostinato non cedere alle 'lusinghe' della 'bellezza', in un contesto culturale e sociale di 'estetizzazione diffusa' (che lo stesso Cepollaro ha studiato e descritto) nel quale è indispensabile una costante vigilanza de-estetizzante. certe esperienze di chiusura formale, come l'ipostrofismo dei distici, frequenti in Scribeide e Luna persciente, si ripresentano qui - nel primo testo, eponimo, della nuova fase - come 'modelli ritmici' forti, ma non immediatamente accolti, quasi fossero anch'essi in sospetto di 'estetizzazione'. Ne viene accolto il desiderio, rimandandone il piacere. Mentre la frammentazione versale del parlato - coi versi mono o bisillabici, coi continui enjambements, o découpages (nella terminologia di Cohen), che sembrano ridurre al grado minimo, ovvero al semplice 'andare a capo', le tecniche di distinzione dalla prosa- ha l'effetto di un balbettìo ritmico predominante, che consente, ancora, spazi di silenzio, dove ascoltare il sentire. (...).

Da: 'Il verso libero e il verso necessario'. Il Verri, n°20, novembre 2002.

Giuliano Mesa

 

Giulia Niccolai, il verri, n.26, novembre 2004

 

Anche i versi nuovi (1998-2001) di Biagio Cepollaro (Oédipus edizioni) trasmettono il costante impegno dell’autore nel volersi avvicinare il più possibile alla propria coscienza mentre si pone una serie di domande esistenziali (in parte dovute al fatto di aver raggiunto i quarant’anni), e tenta poi di rispondersi in maniera autentica e pacata, senza sfoghi emotivi di ribellione o di commiserazione. Proprio questa costante e sotterranea pacatezza nel discorrere critico del poeta, ne riposiziona la figura, non più aulica o narrativa (come solitamente si manifesta l’io poetante di un autore), bensì semplicemente riflessiva, aperta e vicina a ognuno. Il dialogo di amicizia e di vita che Biagio apre con i lettori trascende così i confini generazionali e riesce a interessare e coinvolgere proprio tutti:

«(…) per questo ora la poesia/ vive solo di amicizia/ e ascolto dicendo come fa/ il vento tra le rovine/ o tra mattone/ e mattone quando la calce/ è ancora troppo viva/ per abitare (…)».

Le rovine (come possiamo dedurre anche da altri testi), sono allora la metafora della Storia (intesa come narrazione sistematica della collettività umana), sul cui senso il poeta ha perso ogni fiducia anche come  possibile punto di riferimento ideologico: «nella storia il bene non ha inizio il bene è altrove», o ancora: «… la storia/ non si ripete mai/ è la stessa/ storia che/ continua/ lascia/ lasciali dire». Distrutto, ridotto in rovine il proprio impegno politico, per coerenza l’autore si pone ora questo quesito: «deciditi: vuoi la pace qui e ora/ senza restrizioni e senza nome/ o vuoi che manchi sempre/ un poco e una altro anno/ perché sia abbastanza». Nel tentativo di addestrare la propria mente a non alimentarsi più di sogni e speranze, l’autore rivisita il proprio passato con una costante e quasi sorridente autocritica, come se già la scelta di fare a meno del supporto onnicomprensivo dell’ideologia gli trasmettesse un senso di liberazione che gli permette di aderire meglio (senza sovrastrutture di comodo), alla propria coscienza. Nella dolorosa perdita delle illusioni, il passato riesce però ad assumere il salvifico valore dell’esperienza:  «all’inizio senza un vero giudizio/ lasciò che le cose andassero/ comunque/ ma appena sicuro del successo/ volle strafare/ e fu perduto», o «non più lo scritto/ a specchiarlo/ guardava/ altro». Versi esemplari nel descrivere la trappola di autoesaltazione (e dunque di alienazione e di sofferenza) nella quale finiscono, prima o poi, quasi tutti gli artisti.

Una sottile, pacata sfiducia torna inevitabilmente in tutto il libro, ma il vero senso che rimane è quello dell’apertura, come in questi ultimi versi del poemetto Il piccolo e il grande (1923, 1997), tra Carlo padre di Biagio, e Carlo figlio di Biagio, con quest’ultimo che chiede al padre-poeta spiegazioni sulla luce e sul buio: «solo che è strano: è come essere ai lati/ opposti/ della terra/ ognuno con ciò che chiama/ buio/ ognuno con ciò che chiama/ luce». E sappiamo tutti che senza il buio non ci sarebbe la luce e viceversa.

 

 

Sergio La Chiusa

Mail su Versi Nuovi , Oedipus Ed., 2004 di Biagio Cepollaro (2006)

 

 

... si assiste a una specie di spoliazione, pubblico lavacro rituale, che se da un lato annulla le distanze, pulisce e rigenera, dall'altro ingenera pudore: si riconoscono i propri limiti, ci si vergogna un po'... è che si passa il tempo ad allestire rappresentazioni, preparare scenografie,

arredare il proprio personale palcoscenico di simboli, metafore; poi capita di leggere questi versi nuovi e si respira, si rilassano i nervi, si pensa: questo non è allestimento che si smantellerà per il prossimo spettacolo, non è nemmeno costruzione che si demolirà al mutare del gusto; è modulazione del respiro che, nella condivisione, diventa preghiera. sarà che mi è capitato spesso di pensare alla poesia come a una religione alternativa, privata, esperienza residuale del sacro concessa a chi non può conformarsi, officiare i riti di massa del presente. sarà anche per questo che versi nuovi, nonostante implicazioni politiche, riflessioni sul senso della storia, sul senso del fare poesia, mi sembra soprattutto un libro religioso, libro di preghiere. non preghiere ammaestranti, che cadono da altare o pulpito, e nemmeno preghiere lanciate dalla terra al cielo, ma preghiere che intessono

relazioni, che passano - o dovrebbero passare - di uomo in uomo, di biografia in biografia (e non è certo un caso che la storia privata e i compagni di strada s'inscrivano con nome e cognome, senza pudore, in questi versi nuovi).

non c'è nascondimento, si sente nelle pagine la presenza del biagiocepollaro in carne (il cosoversificante, come lo chiami nella prima bellissima poesia), che lascia tracce della sua biografia, dialoga con le biografie degli amici, ci dice, in un dialogo continuo, quello che poesia deve dirci: e cioè che "non si tratta/di assistere/al naufragio: è che i topi/sul vascello/non possono dare senso/alla storia/ma tenersi stretti/mentre rotolano nel buio/e nel fragore/passarsi un brivido da pelle/a lucida pelle/prima del tonfo/questo sì questo è per ognuno possibile" e che "si

passa la vita a non pensare/che la vita finisce/e quel mancato pensiero/indurisce il cuore/e fa moltiplicare i codici/che separano ridicole/le cose/dalle parole".non si può assistere a una spoliazione senza parteciparvi, senza dismettere i propri abiti logori (altrimenti è solo voyeurismo, pornografia in versi); snudarsi è atto d'amore cui si dovrebbe rispondere con altro atto d'amore.

non si può assistere al riconoscimento e all'accettazione del male altrui senza riconoscere e accettare il proprio male; si tratta, in fondo, di riconoscere la pena, riconoscere che la sabbia che si solleva e vortica quando arriva bufera è la stessa che rimane ferma, che nel biagiocepollaro io-ingombrante che si vuole scagliare come un petardo contro la parete c'è lo stesso inferno - inferno quotidiano, trattenuto, sempre sul punto di esplodere - dei bagnanti che ciondolano sulla spiaggia attaccati ai

telefonini... "i sassi. che sono tanti" è una delle poesie che preferisco, anche se separare un testo dall'altro sembra quasi un atto brutale, violenza al flusso della storia nelle storie: ci si immerge infatti in una continua argomentazione-preghiera che non si esaurisce nei confini di un singolo

testo, procede oltre il margine: "continuala tu la poesia continuala..." hai sempre rifiutato manierismi, modi acquisiti, usurati, e quindi non più

capaci di dire. mi era capitato tuttavia di chiedermi se l'interessantissimo idioletto di scribeide e luna persciente non rischiasse, specie se perseguito con eccessiva ostinazione, di arenarsi in altra secca, in quell'alveo desertificato dove le parole gridano e lottano per la supremazia delle forme. nei versi nuovi il rifiuto di modi acquisiti, manierismi ed estetismi posticci, si traduce in una poesia meditativa e devozionale che si sviluppa su più piani, sia orizzontalmente sia verticalmente, una poesia duttile, che si espande e si contrae, come la bolla di sapone che si storce e sbava, e, ripeto, un po' inibisce per la sua verità. nella dolorosa autocritica che muove dai versi nuovi ci si riconosce - ci si dovrebbe riconoscere - e come singoli e come specie, e quello che si sperimenta è l'atto di coraggio di chi cerca di deporre le armi e invita a deporre le armi per meglio vivere, meglio comunicare (la corazza dell'io lasciata sulla riva come un vecchio indumento ingombrante). noi mortali siamo piccoli e imperfetti, dovremmo ripetercelo all'infinito...ci sono esperienze di lettura che non si esauriscono, lasciano tracce. versi nuovi, per me, è stata una di queste. un abbraccio. sergio.