La poesia di Biagio Cepollaro

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L’ovvietà dell’insonnia

 

e questa lingua che c’entriga urbana sfacendo zona

e bocca pà ntenna all’artri co la guerra e processi

 

silenziosa dentro le dita brace rotante sommessa

quasi cantando dici dove n’andiamo se siamo qui

 

riflessi der cruscotto nmezzo al bianco de chi sta

andando e de chi torna ncrescioso e sfatto astallo

 

e nun è andare st’andare sto scivolo de sapone

l’è como na tiritera liquosa de bitume de scaglie

 

ca invola nera la tivvù tra li panini dentati

a birra ne la poca luce de li affollati aggrevi

 

o de corsa alla rotonda sfogliando carosello

d’una rosa m’ama non m’ama bilicando tra cancro e gioia

 

 

l’è così fradicio e imbelle l’è tanto scorza libòsa

così ruvidamente disposta ad acca la giacca

 

ca m’enformo der tempo mentre embocco la giostra

rebaltata sul fianco la prima luce de sfracèra

 

dico qui s’arròsciano li tempi solforosi

i crippi ridoncioni gl’impasti sfatulenti

 

le nostre menti aulenti como lustri ferrieri

dove n’andiamo liquosi de rutella d’ensonnia

 

ora lo so che dentro sta per sto groviglio

ca l’empiglio se nun t’empicca te ficca

 

dritto inta fiumana e aripànta   e : arirèi

ca te spinge e te spenge st’entermittenza

 

 

de senso de fame l’è como no stomaco

o na figa na valvola ca t’aspira

 

nu liquido vitaltoso ca t’arròtola

t’allabirinta spumoso te slascia

 

in su la rena

 

(sì come i ciottoli che tu vòlvi

mangiati)   sputati vivi rifatti

 

boni per altri lidi per altre corse

era il 66 quanno er corzo forzoso

 

nelle tasche il risparmio cominciò

sulle terre e co quelle le armi

 

così er bimbo sgozzato quanno erode

era così flebile il suo riso e così

 

tenera la pelle d’alabastro

 

 

 

cere e contumelie neve da straforo

ammiccò (a me) ner tram e l’era

 

tutta spersa na signora sbestrata

co l’unguento e co la neve

 

fino ai fianchi co i piedi e staffe

na nzuppata de mezza estate

 

 

dieci milioni poi quaranta de morti

li nomi co la forchetta e il piatto

 

li nonni co la scaletta er camion

nmezzo alla neve nmezzo ar fango

 

se mischia ar film sulla tovaglia

er pezzo de pane der carro armato

 

se mischia alla signora ocio de valva

fino ai fianchi co la forchetta

 

nmezzo alla fiumana nmezzo al liquido

vitaltoso co sto coso ca spinge e spenge

 

ora so ca s’aripanta nmezzo alla fiumana

nmezzo alla mischia s’arrotola e sfracèrando

 

arirèi.

 

 

 

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                                                   Prossimità

 

poi le voci, di certo

le città annodate, il senso

preciso del continuo, sto.

Chi non la pietra colma

il passaggio concluso

a tutto cielo, chi nulla

può né frenare o assentire

gli amici, si sta su quel filo

nel possibile, vicino.

 

 

 

 

ora sono anche più distanti

gli andanti nottegiorno       gli scorrenti / imbuti

del panino-birra-giornale

 

                        il male

è così difficile che passa per onde

sibilante sottopelle come un gas.

 

-          la carne ha leggi severe

                     ad esserla.

 

 

 

ma cosa poteva essere? da quei passi

sciolti, da quella inclinazione

degli occhi verso la prensilità

delle mani.

 

si erano spinti in molti

anche sotto la pioggia e in mezzo

ai fuochi. qualcuno

ci ha rimesso la pelle o l’aria. noi

si sfiorava il vocìo, s’impegnava

ragazzi, il piccolo nucleo

di leggerezza. di questa

le tasche erano armate.


vincono. neanche a nascondere

con un’idea la violenza

teletrasmessa. ci passano

a mezzi sorrisi, futuribili, esposti

di spalle, certi del vuoto

totale di scoppi.

 

quei corpi riversi in bianco e nero

 

-si andava tutti altrove-

 

solo loro a mezzi sorrisi, futuribili, esposti

di spalle e assolutamente certi

hanno vinto.


 

                                                                   da un’altra parte

forse quella certissima e ignota

                                                                   della piccola bestia

-col tempo uno impara a vederci

                       chiaro: negli occhi

                            la chiarezza

 

la terra che trema e che trascina

con sé un esercito di formiche-

 

                                                                   da quella parte

 

                               il mostro di fronte

                            uno per uno ti detta i nomi


                                                            

 

                                                                   a B.

 

non dall’agua vivente ma lo sgambettìo

dallo squarcio                 ma dalla concitazione

dello spasmo.

La composizione e l’accordo di verbi

nel tempo non c’entravano. Nulla

ca nun fosse chesta ammuìna

attuorno. I’ nun putev’ parlà

stev’ zitt’ zitt’ nmiezz’ o’maciello.

Non dall’agua.


 

                                                         a B.

 

Ma da quelle –maculate- vennero

dallo strepito mentre a morirne

si trattava di cedere lasciarsi

andare a quella logica acquea

sorgenti –da quel trambusto

da quell’appanno. La forma

più generosa era black-out.

Sempre di più –cedendo, lasciando.


 

 

                                                            a B.

 

sapranno non ostante da una ragione

oscura fermentante al di qua

d’ogni pensabile –nel loro patire

di quasianime di compimenti

privi di accenti finali –le

desinenze per le future co

llutazioni.   O   i saluti

inimmaginabili.


 

 

                                                           a B.

 

di quale conto? Nessuno. Erano

lì in prima fila tuttiserrati

alla partenza. frignanti

rosei nerastri rincuorati

appena dalla domesticità dell’aria


 

                                     a F. P.

 

e se dal piombo viene

non della luce ma vista

dal vetro, neanche parola

nervosamente moto; in tutto

questo è quanto possibile

(posso).


 

                                               a G.M.

 

conterebbe qualcosa alla fine

l’intenso, tuttopensante

il fuoco anche a tratti

riconosciuto da qualche saggio

urbano?

se non la personale, intima, convinzione

dei nodi, dei fatti/pensieri

in processi concreti

d’inchiostro

che, così mediati,

al contrario,

si passerebbe alle mani.

 

(sulla poesia, certo,

ma anche sulle mani)


 

a F.C.

 

e, dove, un angolo, troveresti

smussati in forma di caverna

dove, in forma di vela

l’occhio irrigidito

del cassiere seguirebbe di carne

la punta

d’un pensiero?

Gli altri, poi, così di fretta

che ad afferrarli per strappi

mi chiedo

se passibili di graffi

o sarebbe l’olio

a colare

olio sull’asfalto


 

alla fine è un giudizio.  scocca così

nel voltarti o nel restare.

Si disse –dicemmo- che l’usura

e la trincea il campo delle operazioni

nella generazione e nei frantumi.

 

Anche se scoppia la testa e sembra impossibile

la pace al fumo d’una sigaretta.


 

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