La poesia di Biagio Cepollaro

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fabrica (recensione)

 

Giorgio Mascitelli

Presentazione di Fabrica, Libreria Odradek, Milano, 14 marzo 2003

 

Fabrica è il terzo libro della trilogia De requie et natura e raccoglie in prevalenza testi del periodo 1993-1997. Tuttavia rispetto ai due precedenti volumi, Scribeide e Luna persciente che raccolgono poesie del 1985-1992, vi è una marcata differenza che, con una certa semplificazione, è possibile ricondurre a due punti cruciali: uno di carattere stilistico e uno enunciativo. Il primo dei due è senz’altro il più vistoso, ma sono entrambi fondamentali per cogliere gli aspetti innovativi e specifici di Fabrica sia all’interno della traiettoria poetica di Cepollaro sia nel quadro della poesia italiana di questo periodo.

Sul piano stilistico: i primi due libri sul piano del linguaggio collocavano Cepollaro in una posizione di originalità anche nel quadro delle lingue artificiali usate da quella che per comodità si potrebbe chiamare la poesia italiana della contraddizione, ricordando il titolo di un’antologia uscita nel 1989 che vedeva del resto tra gli autori presenti lo stesso Cepollaro. Infatti la lingua di Cepollaro era caratterizzata da una ripresa della lingua poetica duecentesca e in particolare di quella di Jacopone da Todi, uno dei più grandi e sicuramente il più negletto. E’ importante chiarire che con ripresa non  intendo forme di citazionismo o di imitazione, peraltro assai diffuse nella nostra poesia solitamente in riferimento però alla lirica d’amore, ma la comprensione di una potenzialità espressiva del linguaggio jacoponesco, che veniva attualizzata e utilizzata con grande libertà ( per esempio con la costruzione di neologismi in –ivo o in –ato, tipici del grande poeta umbro e poi più rari in italiano, o con il ricorso alla mescolanza con il dialetto, anzi con i dialetti contemporanei, visto che accanto al napoletano si trovano anche voci lombardovenete in un contesto sintattico in cui la lingua di riferimento resta l’italiano). Tuttavia, se la cosa non è di cattivo gusto, vorrei precisare meglio la differenza tra ripresa e citazionismo con un paragone processuale: il citazionismo sta alla poesia come una testimonianaza a un processo, la ripresa come la strategia probatoria di una delle due parti. Ciò di fatto garantiva una presa sulla realtà tematica della poesia con uno sguardo imprevisto ed extraideologico in cui la potenza espressiva determinava un giudizio o meglio un approccio al mondo radicale ma allo stesso tempo meditato. In Fabrica al contrario domina un uso più sobrio della lingua, in taluni punti addirittura discorsivo; non vi sono innovazioni lessicali colte e all’italiano standard si accompagnano tutt’al più voci colloquiali e domestiche o gerghi specialistici della pubblicistica politica o filosofica. In realtà non mancano anche qui usi raffinati del linguaggio, ma sempre all’insegna di una sostanziale misura ( per esempio degli effetti notevolissimi  sono ottenuti in Per moti di dire con il semplice e immediato gioco paronomastico tra modi, moti e mondi). Questa lingua più convenzionale risponde a un cambio di orientamento della poesia che non ha più come oggetto la presa sul mondo e il giudizio etico che nasce da questo incontro, ma la riflessione sulla organizzazione della realtà, innanzi tutto sociale, e sul posto in essa occupato dalla poesia.

Sul piano enunciativo: in Fabrica una meno evidente, ma forse più decisiva trasformazione è la scomparsa dello scriba, sostituito da un tono poetico che tende all’analisi e alla meditazione impersonali, senza arrivarvi mai completamente. Lo scriba, da cui il titolo della prima raccolta, è allo stesso tempo personaggio e voce enunciante della poesia nelle prime due raccolte. Nella terza appare solo una volta proprio per dichiarare la propria incapacità a parlare ( in Per moti di dire, pag.22). E’ chiaro che tale trasformazione implica il fatto che non si creda più nel poeta come soggetto dell’esperienza e contestualmente quindi entri in crisi la fiducia nell’esperienza poetica stessa ( non a caso come dicevo sopra uno degli argomenti del libro è la riflessione sul ruolo della poesia nel mondo d’oggi). In realtà anche nelle prime due parti della trilogia la fiducia accordata alla figura del poeta è tutt’altro che illimitata, come denuncia non solo il termine autoironico di scriba, ma l’esplicitazione stessa in quanto personaggio dello scriba ( nella poesia lirica tradizionale il poeta, in quanto non si percepisce come personaggio, tende a mimetizzare la propria fittizia persona in pura voce enunciante). Ma qui evidentemente il precario equilibrio si rompe del tutto e la risposta, la prima risposta, è una sorta di rasoio di Occam poetico che tende a un rigore concettuale sorretto dall’uso di  sofisticati strumenti di analisi politica, filosofica ed estetica. Ed è nelle Epistole che si manifesta con massima precisione e massima forza tale operazione o meglio tale tendenza. Ed ecco che lo scriba e i suoi modi di dire da essenziali diventano superflui, ma nel contempo si profila il rischio di una poesia senza poesia ovvero, come nota Mesa nella postfazione, una poesia che rischia il silenzio, sovrapponendosi quasi all’analisi teorica.

Ma la cosa più curiosa è che nella produzione successiva di Cepollaro, raccolta in Versi Nuovi, ritorna un soggetto della poesia o per meglio dire la poesia ritorna soggettiva. Si tratta però di un soggetto completamente diverso dallo scriba, che anzi ha in comune con quello solo l’esplicitarsi come personaggio, anche se in maniera meno programmatica. Per il resto siamo di fronte a un soggetto meno giudicante e più osservante, ma questa formula è alquanto limitata ed è meglio precisare: in tutta la poesia di Cepollaro l’incontro con il reale, e dunque l’intera esperienza poetica, è occasione per il soggetto di costituirsi innanzi tutto come soggetto morale, solo che per lo scriba modernamente questa moralità si esplica essenzialmente nell’agire nel mondo ( ed ecco la crisi, se la poesia non riesce ad incidere a essere azione), mentre il soggetto di Versi nuovi concepisce la moralità come possibilità di una ricerca della vita beata o quanto meno di un suo frammento. Ma il ritorno del soggetto nella poesia di Cepollaro indica la nascita di un’altra possibilità per la poesia, di una nuova plausibilità per l’esperienza poetica, che era proprio quanto Fabrica sembrava mettere radicalmente in dubbio.

Fabrica dunque è il terreno della crisi, di una crisi fertile perché si risolve nella scoperta di nuove possibilità della poesia. Ma questa crisi non è una crisi di percorso individuale, una crisi di poetica o una crisi esistenziale o meglio è anche tutto questo, ma tutto questo non deve far dimenticare l’aspetto, decisivo per ogni lettore di Fabrica, che questa è anche la crisi di una concezione culturale del fare poetico, quello di una poesia come intervento critico sulla realtà legata alla parte più nobile dell’esperienza delle avanguardie novecentesche, che ha una sua oggettività storica, del resto colta e trattata da Cepollaro stesso nei suoi versi, che va al di là dell’esperienza di questo autore. La forza di Fabrica è la capacità di Cepollaro di collocare il momento personale, sia autobiografico sia di poetica personale, in una consapevole e avvertita panoramica della situazione storica, che ha il suo punto più alto in Per moti di dire per la capacità di precipitare in pochi versi il senso della fine di un’esperienza storica, la cocente delusione personale di chi vi ha creduto e il problema di salvare un’esperienza poetica del mondo. Ma questa crisi non è solo relativa alla poesia perché nasce dalla perdita di un mondo e Fabrica puntualmente lo testimonia in testi come Per mondi medialmente capovolti. E sono tutte le categorie del mondo novecentesco a essere qui in discussione dalla politica alla percezione stessa delle cose, tutte quelle categorie con cui si è cercato di dare un senso alla nostra esperienza. In questo quadro la poesia si interroga su se stessa e le risposte arrivano e arriveranno solo dopo molti anni.

E’ perciò possibile leggere Fabrica  come un crocevia di un percorso personale e collettivo in cui il momento personale non rifugge dal confronto rigoroso con la realtà storica e questo è garanzia anche per i percorsi futuri di non cadere in forme di falsa coscienza salvifica individuale, magari anche dettate da un’autenticità psicologica a cui corrisponde tristemente un’ambiguità culturale. Ma Fabrica è soprattutto un libro sperimentale nel senso vero, che non è quello di sciorinare un linguaggio diverso da quello normalmente conosciuto, ma è la ricerca a tutto campo di senso, cioè in poesia di un linguaggio che la esprima. E questa tensione sperimentale non percorre solo Fabrica, ma tutta l’opera di Cepollaro da Scribeide alla poesia che scriverà domani.