La poesia di Biagio Cepollaro

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Riflessioni sull'arte

La ‘poesia visiva’ e le conseguenze del digitale oggi.

Molta parte dell’esperienza degli anni 60 e ’70 di ciò che è stata chiamata ‘poesia visiva e poi ‘poesia concreta ‘ e poi ‘poesia tecnologica’ (con evidenti difficoltà di definizione), si muoveva all’interno del paradigma della teoria dell’informazione.

Una delle conseguenze di quest’appartenenza, quasi obbligata data l’epoca, fu, secondo me, l’insistenza sul rapporto tra i codici (linguistico e visivo-figurale) con relative tensioni che si venivano a creare continuando a parlare di ‘poesia’, di ‘espansione della poesia’, di ‘fuga dal libro’, di ‘poesia da appendere al muro’.

Questa tensione non era stata propria delle avanguardie storiche che come ricordava Lea Vergine non avevano mai puntato a  stabilire uno statuto linguistico specifico per queste sperimentazioni e si erano per lo più limitate ad un lavoro sulle possibilità ‘tipografiche’. Il fatto è che allora c’era ciò che con enfasi si indicavano come ‘mezzi di comunicazione di massa’, l’industria culturale, i rotocalchi, il primo apparire a livello di massa della televisione, l’importanza che giustamente dava Lamberto Pignotti al problema della comunicazione e delle abitudini percettive del pubblico, alla necessità di contraddirle, di ‘rispedire la merce al mittente’…

Sembra passato un secolo da allora ma molte di quelle opere conservano una loro freschezza, una loro duratura energia. Forse qualcuno potrà considerarlo paradossale ma su internet è possibile , soprattutto per i più giovani, prima di andare al museo o nelle fondazioni, dare un’occhiata alla raccolta di poesia visiva custodita da Banca Intesa…

Il passaggio dall’analogico al digitale probabilmente ha spostato in profondità le questioni anche in questo ambito espressivo. E non tanto perché vi è l’elaborazione grafica del computer, quanto perché materialmente la pluralità dei codici si è ridotta ad una processualità numerica.

Una sintesi a monte che salta sia l’incontro sia  la diversità di strade secolari che hanno portato alla testualità da un lato e all’immagine pittorica (ma bisogna anche aggiungere quella fotografica) dall’altro.

E’ nella produzione materiale, a prescindere dalla resa finale che,come sempre, può essere più o meno riuscita, che sta la differenza. E il punto è che questa sintesi digitale non è virtuale,come spesso si ripeteva già negli anni ’90, ma ancora materiale. Solo che si è di fronte ad un altro ‘stato della materia’, per così dire. Tale stato, in questo caso dell’arte, non è informazione perché è qualcosa di più e di meno, è espressione (cioè composizione, rigore, logica strutturante o destrutturante, familiarità con le resistenze delle materie, fascinazione , e tutti gli elementi che possono costituire l’esperienza estetica nel suo concreto farsi e che non sono riducibili ad un pacchetto discreto di informazioni).

Quindi, come provvisoria conclusione di questa riflessione, si potrebbe dire che mentre negli anni ’60 e ’70 un poeta che faceva della ‘poesia visiva’ poteva essere coinvolto nel progetto di stabilire uno statuto semiologico per un settore specifico dell’espressione poetica , o un settore di confine, oggi, nel digitale, questo problema può non esserci più. Vorrei aggiungere che, se ci si sgancia dalla teoria dell’informazione, non c’è più bisogno di porre il problema dei codici (poesia, pittura) ma di considerare il lavoro a partire dai mezzi della sua produzione.

In questo caso l’indagine sarà condotta sulle diverse strategie creative che si stabiliscono tra il digitale e ciò che digitale non è ma che pur entra nel processo.

Anche per questa ragione per alcuni miei recenti lavori non parlerei di ‘poesia visiva’ , anche se per comodità fin qui ho usato il termine ‘visual-concreta’e, con molta probabilità, continuerò ancora ad usarlo per un pò. Direi semplicemente ‘arte visiva’, relazionandomi con questa materia non come poeta ma come artista visivo tout court… E non è una questione di etichetta, di definizione, ma sostanziale perché investe l’abbandono del riferimento alla teoria dell’informazione con la conseguenza riduzione ostinata di questo tipo di lavori ad una ‘linguisticità’ che non hanno.

La materia della poesia è altra cosa: è suono che porta il senso attraverso la sua eccedenza rispetto al significato.

 

La poesia visiva come equivoco dell’era tipografica.

Il concetto di ‘poesia visiva’ per quanto ambiguo ha una sua perspicuità e convenzionalità storicizzata.

Ma oggi è abbastanza agevole comprendere come sia in fondo privo di legittimità – cosa già avvertita in passato: la definizione di poesia  e quella di visivo sono e restano due definizioni diverse, senza un campo spurio di confusione.

Ciò che probabilmente ha permesso il consolidarsi  di questa nozione è ciò che nell’occidente tipografico si era dimenticato: la ‘sensorialità’ dello scrivere, del gesto dello scrivere, della scrittura stessa.

 

Tale sensorialità legata al visivo ma obliata nella scrittura tipografica, ha fatto pensare alla calligrafia.

E’ accaduto qualcosa di simile forse, a ciò che, sul versante delle arti visive negli anni della Scuola del Pacifico, era capitato a proposito di Tobey, Hartung etc: l’incontro con lo statuto ‘orientale’ del segno e la possibilità di abbandonare la matrice ancora rinascimentale, a detta di Mathieu, dell’astrattasimo geometrico.

Non è un caso che proprio Mathieu parlava di astrattismo lirico a proposito della sua arte.

 

Il lirico si legava al ruolo giocato dal segno. Ma anche al segno-scrittura, estroflessione, per così dire, corporale e performativa di ciò che sintetizzavano come ‘impulso calligrafico’.

 

Ma così facendo si è come spostato al di fuori dell’occidente, da parte di questi artisti, una consapevolezza autoctona mai interrotta.

I richiami frequenti alle antiche tradizioni che vedevano associati immagine e parola non potevano o non sapevano nei casi più recenti cogliere l’importanza della dimensione mediale, e quindi del tipografico nell’azzeramento del ‘tasso di sensorialità’ propria a queste tradizioni.

 

I limiti del discorso sulla poesia visiva sono i limiti del mondo tipografico, per parafrasare la celebre frase di Wittgenstein a proposito dei limiti del linguaggio…

 

Basta oltrepassare i limiti del tipografico in avanti (nella sfera del digitale che stiamo cominciando ad esplorare, con la sua riduzione alla processualità numerica di ogni codice) o all’indietro ( nel mondo delle miniature e dei codici miniati pre-tipografici) per accorgersi che il condizionamento tipografico –come direbbe McLuhan- non ha consistenza ontologica ma solo storica, per quanto illustre questa sua storia sia.

E che i rapporti tra immagine e parola (anzi tra colore, materia, forma e segno di scrittura), al di fuori dell’era tipografica, non sono mai stati soltanto rapporti di associazione tra codice diversi, ma anzi, fino ad un certo punto della storia medioevale, di radicale unità, a monte e a valle, dei progetti compositivi.

 

L’unità data oggi dalla processualità numerica del digitale e del computer era data ieri, presso i miniatori non ancora professionisti, dall’unicità del simbolo religioso che si apriva nello stesso momento e nello stesso modo all’intelligenza sapiente della scrittura e della pittura del miniatore.

Si trattava del duplice lavoro della stessa persona, motivata dalla possibilità di vedere rimessi i suoi peccati per ogni lettera scritta, per ogni ornamento dipinto.

All’inizio era questo intento e questa cornice simbolica che raccoglievano in un solo atto la scrittura e la pittura.

 

La scrittura come ponte

Se considero insieme figura, colore, materia, e segno, e in particolare, il segno della scrittura mi accorgo che per quest’ultimo vi è un destino diverso possibile dall’essere strumento e mezzo. La scrittura può anche non oscillare tra messaggio e decorazione.

 

La scrittura ha sempre e comunque un suo colore, è sempre e comunque fatta di una certa materia, si definisce sempre e comunque in una figura, allude sempre e comunque ad una realtà di segno, sia perché da lì proviene, sia perché da lì fugge.

 

Scrivere diventa gettare un ponte al di là delle lingue verso ciò che a loro modo dicono figura, colore, materia e segno sfuggiti al loro codice.

 

Sfuggire anche al codice dell’inconscio individuale per risalire la corrente fino all’Inizio: a tutti è dato di partecipare a quest’energia.

 

E’ il primo impulso non a comunicare qualcosa ma a rendere visibile l’esistenza di una possibile comunicazione.

 

La scrittura nella sua realtà materiale incontra le altre materie sullo stesso piano: i significati sono ancora tutti da stabilire, ma il senso è già lì.

 

E il primo dei sensi che appare è proprio quello del ponte tra l’alto e il basso, tra il basso e l’alto.

 

 

Coprire, scoprire, trasparire, sparire

 

Provenendo dalla poesia e dal digitale posso avere l’illusione di padroneggiare le parole e il puramente virtuale, o al contrario, la disillusione che dice l’inanità delle parole e la materialità dell’immateriale.

Ora vi è un oggetto davanti a me, una tavola di legno, cm 70 x 80, oppure cm 70 x 100.

Tavola che preparo con il gesso.

Provenendo dalla poesia so che l’oggetto davanti a me è un libro o una pagina, sia pure una pagina elettronica.

Pagina ora di legno e gesso,bianca.

Comincio a scrivere i segni col colore, con i pastelli, li ricopro col gesso finchè traspaiano al punto giusto o con qualche altro materiale.

Coprire, scoprire, trasparire, sparire.

I muri scritti della città, le pagine-pareti, le pareti su cui si stratificano tracce emozionali, i racconti ridotti a frase, la rabbia fatta graffio, graffiata.

Non i graffiti che sono discusso arredamento urbano, punto di crisi del concetto di proprietà, limite valicabile tra pubblico e privato, tra dentro e fuori in una città.

Non mi interessa da tempo ciò che è nuovo, nuovo è ogni incontro fragrante con un oggetto, con un’idea, con una persona. Non c’è nuovo, c’è la speranza di rinnovarsi, l’attualizzarsi: penso al primitivismo e all’importanza per le avanguardie storiche.

Sono questi i corto-circuiti che mi stimolano, in cui mi ritrovo, quando penso alla poesia, al primo libro della mia trilogia, a  Scribeide e alla lingua di Jacopone da Todi che viene lì riattualizzata, appunto…

 

 

La trasmutazione delle parole

 

Più di un amico guardando una mia opera visiva mi chiede se si riesce a leggere le parole che vi sono scritte. Rispondo che anch’io oggi non vi riuscirei. Perché quelle parole, nate come parole spinte e compresse fino a farsi verso, erano destinate a diventare segni mescolati ad altri segni di diversa natura: colore, materia, figura… Insomma erano destinate a collaborare alla costruzione di una forma.

Le parole, tutte le parole, anche le più lise, per la nostra cultura, hanno nella loro genetica qualcosa che si potrebbe definire mitologicamente l’imperium del Verbo, ora sulle mie tavole, vorrei non avessero più quel potere, cessassero il loro muto discorso per le orecchie e si stringessero in un discorso privo di parole, qualcosa che sia solo per gli occhi, visione.

Ma se anche si ricostruisse il senso di quelle parole (e in alcuni casi è possibile esistendo un testo precedente a parte) quel senso non sarebbe, in quanto tale, a dialogare con gli altri segni, perché a farlo sono sempre e solo i segni.

Mi chiedo se questo strano destino delle parole di testimoniare qualcosa che con il senso non c’entra, né con la denotazione, né con chi parla, né con chi a cui si parla, non sia anche un po’ il destino di tutte le parole: ascoltate perché siano fraintese, proferite perché restino lì inascoltate, mosse dal desiderio o dalla ferita proprio quando desiderio e ferita non avranno mai un nome esauriente, definitivo.

Le parole che vorrebbero essere un nome proprio possono anche essere intollerabili.

Divorzio non scelto tra il proprio e le parole, una volta si sarebbe detto tra langue e parole,fino a ritenere che il proprio non sia linguaggio, che sia qualcosa che sta lì, di fronte a chi parla, o dentro a chi parla come suo motore di desiderio o di ferita.

Segno che non rimanda a nulla di preciso e per questo sempre percorribile purchè vi sia l’accensione minima di una risonanza.