La poesia di Biagio Cepollaro
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1.Introducendo
alcuni componimenti di questo libro per una pubblicazione
collettanea, tre anni fa avevo scritto parole che tuttora
pienamente sottoscrivo e da cui mi sembra giusto ripartire
riportandole qui di seguito.
‘Cepollaro gioca sul montaggio, con ferma esattezza. Non
tende, tuttavia, all’informale, bensì all’espressività, su
una linea aspra e risentita (anche eticamente) che da Jacopone
giunge sino a Pagliarani (e penso soprattutto al Pagliarani che
mette in versi Savonarola). Nonostante le apparenze, i suoi versi
non aspirano a un’endofasia letteraria, ma a una ‘girandola’
fra il ‘qui’ della letteratura e ‘l’altrove’
della realtà materiale, nella richiesta, che scaturisce come da
un vortice raggelato, di un’ senso qui’. Il suo
sperimentalismo non ha niente d’incomposto e di viscerale, ma
tende ad una cadenza meticolosamente misurata, a un ritmo quasi
matematico. E tuttavia la sorpresa scatta egualmente nel contrasto
tra tale chiusura rigidamente formale e un’apertura invece
informale, fra regola letteraria e anzi iperletteraria e
dissonanza capace di mettere in scacco la norma e di schiudere dei
varchi entro i quali può precipitare un caos –dell’inconscio
e del reale- non facilmente addomesticabile dalla letteratura.
Cepollaro esprime una tendenza nuova della poesia dei
giovani, che, mentre ritorna al montaggio e a tecniche
sperimentali, dopo il periodo postsimbolista della generazione di
mezzo (quella che oggi è fra i quaranta e i cinquanta anni), è
ormai lontana dall’esplicito moralismo ideologico degli
officianeschi come dal visceralismo linguistico dei
‘novissimi’ (anche se, indubbiamente,’Officina’ e il
Gruppo 63 ne costituiscono il necessario retroterra; di qui il
ruolo particolare di Pagliarani, allora, come oggi in queste
poesie di Cepollaro, di trait
d’union fra queste due esperienze).
La ‘dispositio artificialis’ di Scribeide
punta su un’esigenza di ordine, dunque di una
nuova razionalità.Ed è, questa, un’altra ragione di
interesse per una proposta di sicuro valore e di singolare
originalità’. 2.
Allora non conoscevo un precoce libretto di Cepollaro, Le
parole di Eliodora, (Forum/ Quinta generazione, Forlì,1984) se
no ne avrei potuto misurarne meglio l’enorme progresso
realizzato in pochi anni. Eppure, già in quei versi, la tecnica
era quella del montaggio – non del collage informale e ludico- e
si poteva leggere un verso che potrebbe servire da insegna anche
di Scribeide: ‘le parole le danno le cose’. In quelle
schegge di immagini erotiche frammiste a frammenti di riflessione
e di conoscenza razionale si intravede già, nonostante alcuni
cedimenti alle poetiche allora di moda, un’inversione di metodo
rispetto al dominante postmodernismo: quasi una risposta all’echiano
‘nomina nuda tenemus’, al nominalismo o al misticismo del
linguaggio allora (ma anche oggi) corrente.
Poi ,naturalmente, questo processo è
stato approfondito in una direzione che tende a unire materialità
e primitività elementare del linguaggio e materialità originaria
delle cose (nell’amore per Jacopone e per altri duecenteschi e
per i dialetti meridionali c’è qualcosa che può ricordare
quello di Tozzi per Santa Caterina o per San Bernardino o per
Sacchetti o per il vernacolo senese: un bisogno di originario,
contro ogni convenzionalismo letterario). Insomma, è esistito un
tempo in cui parole e cose si corrispondevano, oggi esso non
esiste più ( lo sa bene anche Cepollaro, che non è affatto
ingenuo) e il linguaggio è costretto perciò a imbastardirsi, a
ibridarsi, a giocare sul vuoto fra significanti e significato, e
tuttavia a quell’ancoraggio lontano – ma è un passato che
potrebbe essere anche un futuro- non rinuncia. Non per nulla
recentemente Cepollaro ha scritto che per lui è decisivo non
‘come’ o ‘cosa’ dire, ma ‘con che cosa dire’,
implicitamente battendo sulla materialità cosale del linguaggio e
sull’equivalenza cosa-parola. E infatti in Cepollaro il
linguaggio tende a una forza materica ed elementare, costruita con
parole ‘primitive’ e una metrica semplice ma potentemente
scandita:’como t’appaurava il voto do matino/ como sapevi
vicina la zampa do mundo’. Ma senza illusioni di una nuova
verginità linguistica: ‘ se l’occhio più non sabe cos’era
guardo’, i versi stessi non possono che essere montati in una
‘dispositio artificialis’.
D’altronde al linguaggio e al ritmo che tendono a
ripetere l’essenzialità e l’oltranza jacoponiane
si mescolano i lacerti linguistici della postodernità
multimediale, dei suoi linguaggi tecnici e pubblicitari. La Milano
di Cepollaro è rivissuta attraverso la Parigi di Baudelaire e la
saggistica benjaminiana in proposito (sul piano teorico Cepollaro
parla anche di una ‘seconda o terza’ natura). Ne deriva un
realismo allucinato come in questo scorcio
metropolitano:’pigiati su scale mobili tentennanti sul metrò /
fanno ressa a tutte le entrate della città / non sono sguardi
sono lenze aggrovigliate / ai piedi e frecce da sterile veleno. /
non c’è morte né vita spariscono i pesci / dal lago senza
rumore’. Né mancano immagini televisive di stragi attraverso
cui passa un’esatta percezione di quali siano stati i vincitori
storici nella nostra epoca e una idea di fulminante unità di
potere e di linguaggio massmediale: ‘vincono. neanche a
nascondere / con un’idea la violenza / teletrasmessa. ci passano
/ a mezzi sorrisi, futuribili, esposti / di spalle, certi del
vuoto / totale di scoppi.// quei corpi riversi in bianco e nero//
-si andava tutti altrove- // solo loro a mezzi sorrisi,
futuribili, esposti / di spalle e assolutamente certi / hanno
vinto.’ E si potrebbe citare anche la descrizione, che sfiora
l’invettiva, nel frammento conclusivo di Li
vedi?, ove tornano l’atto del vedere televisivo (si nota più
volte in questi versi la coscienza del ‘modificarsi del mondo
percettivo al contatto con le nuove tecnologie’) e la mescolanza
esplosiva di dialetto e di tecnicismi linguistici postmoderni.
C’è in Cepollaro questa violenza etico-politica che non
si chiude in una esplicita Weltanschauung,
ma registra con potente fermezza frammenti di realtà limitandosi
al commento che nasce espressionisticamente dallo scorcio e
allegoricamente dal montaggio. Il quale poi non riguarda solo la
singola composizione, ma l’opus nel suo complesso,
l’uso di vasti poemetti articolati in sequenze successive, i
rimandi a distanza (per esempio, quelli autobiografici e nondimeno
‘sociali’ sulla figura dello scriba, strategicamente collocati
nella parte iniziale e in quella finale del volume). Cosicché,
alla fine, dal crogiuolo incandescente di questi versi e dalla
fredda costruzione che li dispone in raggelate costellazioni, esce
un’immagine caotica e tuttavia perfettamente organizzata del
mondo contemporaneo, quasi a renderne, in forme a esso omogenee,
la magmaticità pulsante e incomprensibile e insieme l’idea di
un ordine immobile che ci sovrasta. E’ il realismo
dell’allegoria.
3. Come in un mondo medievale, anche Scribeide
mira dunque a fornire l’immagine di una totalità chiusa,
seppure frammentata, insensata, incessantemente pulsante e
vorticante. Ci sono la città metropolitana coi suoi linguaggi e
il passato contadino coi suoi dialetti, il metrò e interni
domestici –con quella mela che dà il titolo a un poemetto
indimenticabile, pieno di tenerezza per una dolce compagna-; ci
sono vuoti e pieni, versi apparentemente superflui per la loro
disorganicità e sovrabbondanza e che tuttavia contribuiscono a
questa sensazione di ‘gremito’ convulso e compatto che è Scribeide.
E, in questo universo, lo scriba. La riflessione
sull’atto dello scrivere è già nel titolo. Lo scriba si
autoritrae più volte;e ogni volta è un autoritratto sfregiato.
Non si tratta affatto di celebrare la scrittura, il suo valore
orfico, come ci aveva abituato la poesia ‘innamorata’ del
decennio precedente 1975-85. Nella società dei linguaggi tecnici
e multimediali, lo scriba è ‘sanza loco’, costretto a un
‘affrasar pauco e stento’ e a questa dichiarazione di
autocoscienza (anche ‘sociale’)- ripresa nel titolo del
terz’ultimo poemetto-:’i’ non sono che sintagma sperso’.
C’è un filo che unisce la parte iniziale a quella finale, ed è
la coscienza della miseria dello scrivere, il tentare e ritentare
lo stesso autoritratto.
All’inizio ‘i’ ca son scriba sanza loco/ mi veco
sintagma sperso/ scriba de pesanza/ de voce rauca/ de chiodo
cunficcato/ de stilema ossissiunato/ de lengua sabutato’; alla
fine:’i son scriba da voce secchita’, consapevole della vanità
della poesia e nondimeno ostinato a testimoniare una sofferenza,
un disagio intollerabile: ‘ ma è per sto grido ca non moro’.
‘Scriba de pesanza’. Oggi è dimoda, nel postmodernismo,
esaltare la leggerezza. Après
Calvino (ma anche Kundera e Nietzsche) essa sembra la
caratteristica stessa della grande arte contemporanea. La
leggerezza, si sa, è arte signorile (solo i signori non conoscono
i pesi della vita):presuppone superiorità, gioco,distinzione,
eleganza. E indubbiamente la letteratura è tutto questo. E
tuttavia chi potrebbe dire che Dostoevskij e Kafka, Verga e Tozzi,
Sanguineti e Fortini, Pagliarani e Volponi, siano leggeri? La
letteratura è un’arte signorile che però –è questa la sua
salutare contraddizione- può conoscere (come in queste pagine di
Cepollaro) anche la gravezza e la gravità della vita collettiva e
individuale di questi nostri anni. In un momento in cui la cultura
e l’arte postmoderniste –cultura e arte di uomini occidentali
che si credono i signori del mondo e come tali comunque si
comportano- si autorappresentano sotto il segno della leggerezza,
questa dichiarazione di ‘pesanza’ da parte di Cepollaro mi
sembra un segno – da salutare con speranza e anche, di questi
tempi, con riconoscenza- del suo radicale anti-conformismo e del
suo sostanziale antipostmodernismo. Romano Luperini
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