Biagio
Cepollaro
Le parole
di Eliodora
Presentazione di
CARLO VILLA
Forum / Quinta Generazione
INDICE
Chiuso
lo sportello
La
penna affonda come un’unghia
Dopo
l’impazienza delle dita
Così
pieno e solo il pergolato
Le
parole le danno le cose
Anche
a tenerti aperta
Sono
troppo magro
Perse
le vie del torace
Che
non saprei dirti nulla
Meccanismo
inceppato
Retrocedendo
nella stanza
La
testa piegando la sedia
Schiusa
appena la porta
Tra
di noi
Lasciandoti
fare
Ti
cerca la penna
Premendo
nel palmo i capelli
Sibila
urlo donna
Culmino
nel rosso
Presa
rigirata sul fianco
L’anello
alle caviglie
Stringendo
natiche ti sfioro
Bionda
ti stringe il collo
Le vie del torace
Prefazione di Carlo Villa
Fu il corpo che disperò della terra,
che intese parlare il ventre dell’Essere
Nietzsche
Per Eros,
amo di più le parole
che
Eliodora mi mormora all’orecchio
della cetra del figlio di Latona.
Meleagro
chiuso
lo sportello
(ultimi
i capelli a sparire)
eliodora fece larghe
le strade
il dito si aprì al sangue
(venne
si fece strada
il panico)
poi la mano si ricompose (ora
la penna tagliuzza le ciocche
eliodora aveva
calde
le ascelle
(riposavo le spalle
alla sua ombra
anche l’alfa girava più
leggera
tagliavo
le curve, era
con i fari e la luna
da una parte mi
segue
eliodora
più magra
(più sottili le anche
dallo specchio retro
visore
le braccia non hanno più
mani
eliodora è davanti
(di schiena alla penna
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la
penna affonda come un’unghia
(stringi tra le gambe
scrittura tesa e panico)
bianco il fondo del mio viaggio
(pagina e pelle)
dopo
l’impazienza delle dita
(e
stupirmi
del tuo corpo ancora bianco (e intatto
che si muove)
che il segno non inchioda
(presto
il granchio si dilegua sotto lo scoglio
così
pieno e solo il pergolato
(al tavolo
del bar nello sguardo)
il tuo
ombelico che sussulta
(e
in quello
metà del mondo curvo)
intorno
silenzio di tavoli le anche
le
parole le danno le cose
(l’edera
fa la storia dei muri
i parlanti
sono marchiati
(la balbuzie
lo so viene dalle crepe dei muri
anche
a tenerti aperta
(e tento così
ma quante immagini possibili?)
tra il prima
e il poi non c’è cosmo
gonia
(torna
a non spiegare nulla il sole)
sono
troppo magro (memoria corta anzi
nulla
se
mi ritorna (volendo esclusa memoria
involontaria)
aumento
di peso (e consistenza dico
l’esistenza
perse
le vie del torace
(resta
giacca camicia ai piedi del
letto
(sono
feticcio e specchio
che
non saprei dirti nulla
(tanto
meno scriverti
che vivo d’accensioni
(colpi
di
coda e reni)
che un filo tiene il cervello
ai piedi
(la pelle
conduce le parole e tutto il gioco
meccanismo
inceppato
(corpi rossi e linee
in dissolvenza)
non
solo il senso ma i corpi
(ti fa vene d’inchiostro
il segno
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in un
certo senso la cultura ha inizio
nella coazione di Pan e nella fuga da lui
James Hillman
retrocedendo
nella stanza (ma di più
forse
al segno perduto (si concentra buio
lo spazio
aperto
di Pan (lo ritrova
l’inchiostro sotto
il
sole meridiano (voci da basso tuo silenzio
prono
la
testa piegando la sedia (sibila
lama
(intanto lunghissime dita
accendono
fuochi
(mi chiama continua! non
basta
la
sola ferita (traballa la sedia sci
volanodita
schiusa
appena la porta (ti pieghi
in
avanti offri il fianco ferma! tra
i fianchi
dal
basso a lingua d’uomo sotto l’ar
co
ferma! s’allarga tra i
sassi viene
acqua
tra
di noi (la pelle dell’uva
tersa
hai il viso dico certe
macchie
di
luce (solo il viso non ecce
de
il bronzo delle cosce incre
dibile
il
calore (gli slip delicata
mente
lasciandoti
fare (seduto ero per
levarmi
(come sorprende la pioggia
in auto
ed
è quasi piacere (il piede sca
valca
il cambio e viene da fuori
un brivido
ti
cerca la penna collo di bottiglia
aprendo
(un detto dentro affonda a go
cce
biancoazzurre
così di fronte levigarti
a
vene a polpe (danzando al buio delle
imposte
premendo
nel palmo i capelli
in
basso (raggi dita come
aghi
al
mento (vola veliero nella
bottiglia
(voli spingendo acuta
sibila
urlo donna trafigge
il
muro (spalancando la porta
prona
alla
candela (seguirò la scia
entro
lo squarcio mia notteveglia
culmino
nel rosso (mi tieni
gemendo
(ancora un poco al
lume
ti
fermi (limpida nelle ci
glia
urlo al toccandofondo
presa
rigirata sul fianco
gridano
lontano oltre la
curva
si
tendono le gambe (torna
no
preda del sonno cieche
l’anello
alle caviglie oro sul
letto
dita intrecciate al ferro
occhi
alla
fiamma (spalanchi la bocca
tagliano
l’urlo le tue labbra
stringendo
natiche ti sfioro
il
sole lungo il binario
frigge
la
pelle in alto scorre rica
de
ti solleva crescederaglia
bionda
ti stringe il collo l’anello
ghiaccio
sulle ginocchia le dita
alte
tra
vene di caviglie (piegando tonda
la
testa (s’infossa la lingua strari
pa
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LE
VIE DEL TORACE
1.
cercando
mano la morsa le dita che tengano
strette
volubili verità quelle dei sogni
o circuite
da
incredibili geometrie (il tempo scorre
tra
quelle dita) dopo venezia hanno città
sapore
d’acqua
sciogliendo
linee e corpi rossi in dissolvenza
pur
di affidarmi l’opera blocchi portati a spalla
cristalli
umano
si manifesta si perde in gioco lo stesso
gioco
puntellare un centro contrastare vertigine
e implosione
2.
solarità
d’intenti le vie del torace o piuttosto
selvaggio
non cale delle parole muto il sole
dell’animale
o
anche te nuda da riscoprire (grande salute il mare
se
basta ultimo mito il male ai denti ad incrociare
viltà
e
spossatezza) il modo volume la linea a guardarla
opaca
e assente quante azzurre-dolci disegnate
a
penna
indelebili
quante perdute a cielo aperto altro
vorrei
per le mie gambe e i muscoli potendo ancora
accarezzare
3.
meccanismo
inceppato (non solo del senso
ma
dei corpi premendo sul petto perdere così
memoria
sfigurato
ogni disegno ad essere non può sostare
altrove
ma giacca camicia ai piedi del letto
sono
feticcio
e specchio faccio parte del sonno
sognando
centro di strada perso intorno guardando
scrittura
inceppata
groviglio intestinale occlusione del senso
pensato
ma morta sul selciato la coda ebbe nuova
nascita
4.
pesa
sugli occhi moltiplica capelli li fa neri e forti
dai
capelli al torace pelle come un tempo spiaggia
e canne
finché
lirica segni attimo propizio in equilibrio
precario
del solo occhio che guarda l’altro
cieco
ecco
si definisce l’atto di poesia non ti chiedo
altro
che essere tornando rossa dissolvenza
disgela
angoscia
tenera si fa spazio e genera così
la
terra inghiotte e respinge in bilico tra giorno
e notte
5.
credere
nel segno e nausea del senza corpo
d’inchiostro
e sono lampi tornando torace bruno
ecco
parola
scandita finché mano la morsa le dita
parola
impaurita come un tempo spiaggia e canne
bianca
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Prefazione
di Carlo Villa
UN MECCANISMO INCEPPATO
Canetti una volta scrisse dell’impudenza di quei critici
letterari che costruiscono la loro fortuna sfruttando la disperata
solitudine dei poeti.
Holderlin visse da folle negli ultimi anni della sua vita. Kafka
destina al rogo i suoi scritti prima di morire. Rimbaud brucia nel
silenzio e nella fuga da se stesso l’enorme patrimonio visionario de
‘Le illuminazioni’, ed ecco, alla scomparsa di costoro, eserciti di
esegeti, commentatori, catalogatori, imbrattatori, azzannare i resti di
vite così sofferte e vilipese, semplicemente per esistere ed essere
citati; in luogo dell’oblio sopportato in vita dai destinatari di tanta
speculazione.
E’ davvero atroce il divario di un Musil, che muore isolato e
sconosciuto, continuamente ostacolato in vita nella stesura del suo
capolavoro, e i numerosi convegni fioriti attorno alla sua tomba.
Eppure
quest’aspetto rapace e parassitario del critico finisce per essere una
solenne garanzia per il poeta. Si tratta di una sottile dialettica
hegeliana tra padrone e servo; di una sorta di resistenza non violenta,
per cui l’opera valida, sottoposta al vaglio del tempo, attraverso gli
artigli e i morsi di codesti sciacalli smembra cadaveri, finirà per
ridursi a smagliante e sano scheletro essenziale, illuminando di sé la
letteratura a venire.
La poesia non può, non deve essere compresa ed accettata subito;
per il semplice fatto che innova la sensibilità corrente, rompe gli
usuali schemi espressivi, mina l’aspettativa del lettore, deraglia il già
tracciato, e dunque sbalordisce, indigna, reca scetticismo e fastidio in
chi la legge: guai se non lo facesse.
Un
nuovo, autentico poeta, questo lo sente vero, ancor prima di accettarlo e
di capirlo; altrimenti non si porrebbe neppure dinanzi alla carta bianca
nel tentativo di fermare ancora una volta gli assurdi del destino umano.
Un nuovo poeta deve fare i conti con millenni di sensibilità già
organizzata e ferma nei testi
dei suoi infiniti predecessori: un’impresa davvero fatale e gigantesca.
Eppure , se poesia c’è in lui, ancora una volta si compie il miracolo,
e quei moti dello spirito, tramite questo miracolo, penetrano nel lettore
come nuovi, suscitando in lui echi affatto sconosciuti.
E
non si può negare che Biagio Cepollaro, con questo suo:’Le parole di
Eliodora’, abbia trovato una sua cifra originale per farcela, per
ripetere questo inesplicabile miracolo.
Già
la forma degli accapo, il taglio dei versi, la metrica, l’asciuttezza
dei componimenti, pervasi tutti da una ‘laconicità socratica’, in
Cepollaro che si è laureato con una tesi su Nietzsche, recano nel lettore
un progetto di poesia essenziale e di lunga durata. In lui per davvero il
risplendente scheletro del discorso, spolpato di tutte le parole superflue
e ridondanti, illustrative e ‘poetiche’, si staglia nitido e cruciale.
Cepollaro
procede per eliminazione, sfrondando con mano ferma e impietosa ogni mezza
misura e via traversa, per giungere a impietosi flash dal significato
ambiguo e polivalente; come si addice e s’impone alla poesia.
Apparentemente soltanto albero spoglio, il discorso poetico di Cepollaro,
in questo modo prorompe più urgente e imperioso, proprio a cagione di una
linfa invernale che scorre assai più lentamente sotto la scorza e
nell’interno d’un tronco duro, chiuso, ma pronto a rinverdire ad ogni
istante, ad ogni brezza di primavera dovuta ad una lettura attenta.
Carica
di responsabilità, sfrondata spesso di articoli e di preposizioni, nuda
d’interpunzione, divaricata tramite parentesi, puntellata da citazioni,
la poesia di Cepollaro ha inoltre una sua indelebile marca sensuale; un pò
per la veste polita e liscia, d’accordo, ma anche per le immagini che
usa, e per la rattratta carica dei suoi significati, sempre pronti a
scattare come un congegno a molla.
Si
leggano ad esemplificare ciò che s’è detto, alcuni versi, estrapolati
qui e là dalla raccolta:
chiuso
lo sportello
(ultimi
i capelli a sparire)
eliodora fece larghe
le strade(...)
oppure:
eliodora
aveva calde
le ascelle
(riposavo le spalle
alla sua ombra
anche l’alfa girava più
leggera
tagliavo le curve, era
con i fari e la luna
(...)
Si
tratta insomma d’una visionarietà tattile e che gronda attese; che
nella penuria di descrizioni, evoca assenze ben più gonfie di qualsiasi
possibile raccontare. Mentre la biografia del poeta, segreta e pudica
dietro la carapace delle metafore metalliche, dona al lettore avido di
sapere, solo un caleidoscopio di riferimenti smozzicati e pervasi da
un’arguzia e da un’ironia, che fa della poesia di Cepollaro una
creatura indubbiamente votata
allo
sgambetto e all’irrisione.
‘Meccanismo
inceppato’ comincia uno dei componimenti più equilibrati di Cepollaro,
e non c’è dubbio che se di questa poesia arida, che trasuda vapori di
zolfo e sentori d’un chiuso carnale, si dovesse dare una definizione,
non ne troveremmo una altrettanto adatta:’inceppato’, in quanto
Cepollaro, nel procedere, trova sempre l’abile maniera di frenare
l’urgente che vorrebbe imporsi, attraverso il facile; ringoiandoselo, al
fine di licenziare solo la pura e nuda espressività priva di frange.
(Carlo Villa)
Roma,
12 dicembre 1983
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