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Lavoro da fare

a Francesca,

compagna di trasmutazione


 

*

 

calmati o il cuore ti scoppierà e non è metafora

poetica ma proprio sordo tonfo d’organo

risposta che travalica

domanda e nel vuoto degli occhi

si schianta

ora scrivi come hai sempre fatto

e non scherzare più col fuoco

della vita

o in una di queste mattine la piccola

storia sgangherata e sempre

pronta a rimangiarsi il cielo

finirà tra lo strepito del condominio

non come si chiude un volo

ma come un colpo di tosse

 

calmati e scrivi: fallo anche ora

in mezzo ai capelli bianchi

fallo come quando eri ragazzo

col terrore negli occhi

fallo anche solo per non crepare

non si tratta più di conoscere

si tratta ora  nel pericolo

grande solo di portare a casa

la pelle: non c’è niente in questo

di cui ti devi vergognare: è così

e basta.

 

e ora che la voce si alza riesci

perfino a vedere nella finestra

di fronte l’onda del mondo

che s’appiana in risacca di pietra

e metallo: senza prodigio non vai

da nessuna parte ché quello

che non ti fu dato all’inizio

non cesserà mai di mancare

 

e lo hai sempre saputo di andare

storto nel mondo come uno

che anche correndo lo fa

con una corda al collo: ora

non dare strappi: fa colazione

fatti la barba siediti pure

ma fallo lentamente senza la stretta

non è colpa di nessuno se la voce

che ti dai è la sola che in piedi ti tiene

 


 

*

ora ti tocca prendere

questo dolore rancido

e portartelo ovunque

con te: puzza, certo,

come ogni cosa che viva

è andata a male senza

per questo sparire

ma non hai scelta:

è roba umana comunque

 

pensa che ognuno c’ha

qualcosa nascosta

del genere da qualche

parte e come te è fresco

di scoperta o peggio

morirà senza averlo mai

saputo

 

e pensa anche che all’aria

il sapore rancido

si seccherà

e un bel giorno per via

farai finta che quella

muta non ti appartiene:

tirerai dritto

come se il verme

fosse di un altro

 

quello che ti tocca

ora

è tenerti una tristezza

in più

come ad un certo punto

uno accetta gli anni

che ha

e si sente la faccia

più calda e pesante

come se appunto

fosse passato del tempo

a dispetto delle ridicole

mosse che faceva

per restare in quella buca

dove una volta

era caduto

 

ora lo sai che se non esci

è perché hai imparato

a giocare

non importa con che

pur di restare:

hai fatto il morto

insomma

per non morire

 

e adesso che sei fuori

a metà

senti come normalmente

il mondo sia lontano

ed è giusto così:

ognuno parla davvero

se lo fa

dal chiodo

che un bel giorno

l’ha fissato

 

altrimenti è tanto per fare

altrimenti è solido teatro


 

I                                                                                                               

  

forse siamo stati come quelli che danno

un’occhiata

al ristorante

e non entrano.

 

intanto i cani al giardino

del parco

riconoscono a fiuto l’erba

che li cura e giungono cose

nella testa – anche quando

si cammina per strada

che uno neanche se l’immagina-

cose che poi sogna tutte alla rinfusa

cose alla rinfusa

che però ci parlano

 

così non guardavo in alto ma a mezza altezza

che la mente è larga     larga di cose

che fanno a pugni e uno

ci deve mettere prima

o poi la pace

e ci entra tutto ma davvero tutto

e sono tanti i vicini

che ascoltano

senza approvare

e tanti i vicini

che chiamiamo perché ascoltino

 

(o che credono di ascoltare

o, che è lo stesso, che noi crediamo

che ascoltino: se si può solo

riconoscere è per continui

travisamenti. come in sogno,

appunto)

 

e allora abbiamo detto all’anima di farsi avanti

che noi poi ci facciamo

un bel lavoro

si, ci son cose che lei preferisce

non pensare

così come ci son cose

che noi preferiamo non sentire:

ma è dalla sua acqua che il fiume s’ingrossa

e si sa che l’acqua

è segno di pericolo (pericolo

di chi si trasforma: dunque l’acqua

è dappertutto…)


 

*

non c’è sapere non c’è ignoranza

non c’è neanche alto

e basso

tutto si dà nel cielo

per imponenza

e allora perché raccontarsi

delle storie?

 

no, non si tratta ancora di sospettare

o gettar discredito sulle buone

intenzioni

sottintendendo una radicale

malvagità dell’essere:

semplicemente si tratta di guardare

a mezza altezza

di non assoggettarsi

nella speranza

di far piazza pulita

in un tempo indeterminato

di ciò che coesiste

all’atto

e lo sostanzia:

bene o male alla fine

è ciò che resta una volta

consumato il cuore

per tutto tener dentro

e trasformare

 

bene sarà e resta

un’aspirazione

nonostante tutto

male non pensarci

neanche

per pura meccanica

dei giorni

non pensarci più

 (fino al terrore

finale

e a ciò che

per qualche tempo

lo precede).

 

*

ora fare anima ci suona

quasi minaccia

che avremmo voluto imboccata

una strada

fosse buona per tutto

il meriggio

della vita e invece

ci molla dopo qualche

metro

ed è sempre questa la lotta

e vale per ogni età: tra fissità

e mutamento

tra ciò che vorremmo valesse

per sempre

e l’acqua che scorre

che non è mai la stessa

 

-oh si chi ci è vicino

teme di essere travolto

da questi invisibili cataclismi

e si preoccupa per sé

come è naturale

ma noi dobbiamo svolgere

un compito

-malgrado lui-

che è fare dell’anima

la nostra vita

gettare un ponte

tra ciò che siamo e ciò

che comunque eravamo già

da prima

anche senza saperlo

 

ora il tralignamento

del mondo appare

anche più chiaro: chi non frequenta

demoni

se li ritrova nei programmi

di governo

e invece questa folla

va ammaestrata

e interrogata:

arriverà il giorno

delle mediche analisi

e dei referti

del confronto contraddittorio

delle diagnosi

della distrazione

alla reception e forse anche

della semplice cattiva

educazione

e allora cosa diremo?

che siamo a posto

per cominciare il viaggio

(o finirlo, che è la stessa

cosa) o che dell’umano

noi

nel tempo che ci è stato

dato

abbiam visto e sentito

abbastanza

che quel che è venuto

fuori

non è gran cosa

ma che è già tanto

perché la vita è più grande

di noi

perché lo spazio

e il tempo

sono infinitamente più grandi

di noi

e noi che non potemmo essere

uomini di fede

fummo costretti ad inventarci

qualcosa

che alla fede somigliava

un disperato e impossibile

amore per le altre

creature

 

 


 

*

 

certo, noi fummo ragionevoli

e non insistemmo più di tanto

ci tenemmo per noi

con l’alibi dell’arte

quest’eccedenza

di psiche –provammo

terrorizzati anche ad esorcizzarla

facendone bieco

commercio-

ma quella folla è infinitamente

più grande di noi

e oggi

nel meriggio della vita

siamo costretti ad ascoltarla

perché il bene non si dà

come intenzione buona

ma come una pura

possibilità di questa sofferenza

e di questa

agnizione

 

da giovani si cerca fuori

e si convince

o costringe

il mondo a seguirci

questo ovviamente non è vero

ma per un po’ ci crediamo

e in quel po’ di tempo sembra

che le cose confermino

nostre attese: un quartiere

diventa tutta la città

una città diventa tutto il paese

un paese diventa il mondo

ed era solo un’idea o una fantasia

cresciute a dismisura

dove di reale c’erano solo

le disfatte che avremmo poi dopo

inseguito come spie di nascoste

verità: solo

che le disfatte come le vittorie

non contavano molto che contava

solo il nostro sentirci vivi

 

e di ciò soprattutto facemmo

esperienza

ma una volta sicuri

della vita

cominciò a contare la direzione

(della nostra vita)

e quindi ricominciammo

dalla fine: cose

e spettri si equivalgono per la vita

della mente

e la vita di fuori

(quella che resta

sottratta allo sterminio

della storia)

è ridotta a ben poca cosa:

 

i grandi cambiamenti

sono spesso solo cambi di indirizzo

o di modi di vestire.

 

 

 

II  

                                                                                                        

scrivere come suonare: eccoci qui

a ritentare lo strumento

ci accompagnò da ragazzi

con lui rendemmo tollerabile

l’accadere ma il senso

che potemmo suonare

con corde rimediate

tra le rovine della storia

poteva solo alludere

a ciò che i giorni

disegnavano senza cura

fu tutta una lotta

per spingere la mente

al fare

nei modi e nei tempi

che sono della mente

e così le cose

già accadute

potevano esser viste e subito

riconfuse nel vortice

delle parole

 

e se ci chiediamo in un mattino

stranamente di pace

cosa dobbiamo adesso

fare

non ci aiuta la suite per violoncello

solo

di bach

perché appunto come lui da soli

ci ritroviamo a fare

tutta la musica

e sappiamo che è inevitabile

 

oh si noi possiamo

raccontare

come fa l’archetto

che si piega e raccoglie

anche le note più lontane

 

(con addestramento lungo

l’ampiezza della mano

cambia

e in un secondo luminoso

riandiamo agli occhi

di bambino sul triciclo

e alla madre che ci torna

in sogno

ignota a dirci che è proprio

questo non sapere

è l’acqua che è passata

che stiamo per compierci

anche noi

in un modo che assomiglia

ad una decisione

ma è invece il punto esatto

che trasforma una nuvola

in pioggia)

 

le cose che generano

scompaiono nella stessa

generazione

il respiro si fonde

con l’aria

la mano che stringe

scompare nell’abbraccio

e nessuno potrà raccontare

queste cose

che sono già oltre

memoria individuale

sono già aria

e quei momenti

che per noi

credemmo unici

già non sappiamo

più indicarli tra la folla

come il nome che ci sfugge

nel bel mezzo di una conversazione

era il nome

che pensavamo più nostro

 

ed è che noi non siamo

nostri

 

ora l’archetto incendia la corda

e quasi la batte

non c’è canto se non nell’insieme

non c’è motivo se non

galleggiante come ologramma

al fondo dell’impasto

c’è stridìo e resistenza

di metallo

 


 

*

ma nei sogni l’impasto

si smuove

e fusa la terra

frantuma le croste

e dal calore impossibile

dell’origine

fino a noi giungono

messaggi

ancora fumanti e sfigurati

 

 

ora siamo sulle porte

degli inferi

ad ascoltare

ora non siamo uno

per fortuna

e tra questa folla

circola aria densa

e l’odore di muschio

del sesso aperto

ci strappa di dosso la camicia

giunge un’età in cui non importa

più

essere giovani o vecchi

perché non si è né giovani

né vecchi

si sale fin sopra la rupe

e da lì non c’è che cielo

terra e mare

oh si, nuotare negli strati

del cervello

tra alghe-neuroni

affondare proprio lì

fino allo scoglio sotto il quale

restammo impigliati e credemmo

di morire

 

(è per questo che si torna indietro

e per questo che di fuga

in fuga

cominciammo a non vivere più )

per questo forse

sono goffi i nostri movimenti

per lungo tratto né belli

né brutti

troppo impegnati

nella cosa da svolgere

troppo dentro la cosa

e le sue domande

 

certo si tratta pur sempre

di respirare

e camminando fare intorno

un po’ di spazio

e se bellezza c’è stata

era solo perché dalla rilassatezza

dei corpi

si poteva dire

qualche verità

ma il bello non è per forza

anche il buono

e anche le piccole verità

a cui possiamo

accedere

nel loro piccolo

non per forza sono buone

ma hanno in compenso

una loro bellezza:

l’importante è non restare

incistati in una vita

bloccata

 

quella di questi giorni

è una conquista

sui bordi dei sogni

a ripescare il satiro

annegato nel fiume

e occorrono ben due uomini

a portare alla luce

ciò che ostinato resta

nell’ombra:

uno dall’aria lieve

del giorno

e un altro armato

che appartiene

alla notte

dei tempi

 

ora raccogli quel fiato

denso di palude

e scioglilo

nella luce…

anche lei si volta

e comincia a disgregarsi

il calendario

appeso alla parete

 

che vivemmo fin qui

dimezzati

che non c’è vita

che non cuci insieme

giorno e notte…

 

tutto questo ci stanca

che questo mondo

non è fatto per la felicità

e la barbarie inesorabile

avanza

in ogni tralignare nuovo

del costume nazionale

in coda ad un occidente

indeciso tra sterminio

e centellinato

suicidio collettivo

certo tutto questo ci fa tenere

la barba

più di un giorno e ore

di sonno

e la città con gli occhi

che si chiudono

si allontana

 

ma quanta pena in quegli occhi

e non solo dei disperati

che urlano da soli

al centro della piazza

ma di quelli che vanno

a borsa e a denti

stretti

tutti compresi

nel nulla

delle loro vite

 

e se la vita di un singolo uomo

non conta nel grande insieme

oggi non possiamo chiedere

meno di questo

al mondo

che la vita di ogni singolo

uomo

sia felice

tutto il resto è lungo

giro che ci ha portati lontani

dal centro

come quando credendo di far prima

si resta fermi in tangenziale

mentre la strada che lega

le case e la rete

che liquefa le piazze

è libera e scorrevole

perché così sono

le strade

perché questo dentro

sono le strade

 

certo tutto questo ci stanca

ma è lavoro da fare

non da soli

che non è lavoro

da fare da soli

ma è da fare

e non domani

e neanche solo simbolicamente

nei gesti che stanno

per altri gesti

ma nell’azione dura

e semplice

di non dare requie

al cadavere

che addosso ci portiamo

 

*

quando sul selciato resta

la vecchia pelle

ci muoviamo per strada

guidati dal fiuto

e le luci sono bagliori

e la città non è più

la stessa

salgono gli odori dalle pozzanghere

resti tra scontrini

e preservativi nell’insieme

delle tracce

di plastica

di ciò che in qualche modo

anche sordido

era vivo e che noi

non possiamo neanche

immaginare

 

ma è tra questo ferro

che l’umano

è da ampliare

 

 

cosi stamani

che è mattina di festa

che è sciopero

generale

festeggiamo così

il movimento

dell’acqua

alla vita non si può

chiedere meno

di essere viva

 

 

oh si noi restiamo stupiti

alla vista

del declivio

non avremmo mai

immaginato

che a muoverci

ogni mattina

dal letto

fosse questa voglia

di azzerare la città

di liquefare le pareti

che al confronto

i graffiti

sono ancora ornamento

 

 

 


III

 

i sogni vanno all’avan

scoperta

e tra i due aggrappati

alla cancellata

che sfilano via

per non calpestare

madre terra

sembra che occorra

scegliere

se col senso della mutilazione

arrancare tornando

oppure ritrovata leggerezza

della scimmia

sentire che nulla

manca

che il puer in noi

davvero non è più

da temere

e l’anima

serenamente parla

con folla a volte

festosa

che più

non l’imbarazza

che siamo ognuno ad un certo

punto

del binario

 

(e qui uno scambio

sarebbe fatale

come la frutta

che trovi fuori

stagione

non tanto il gusto

ti toglie

ma il senso

del tempo che passa

nel giro

compiuto

dell’anno)

che non c’è solo

la paura

della vita

come nebbia generica

che si può

respirare

c’è soprattutto paura

di vedere la vita

che finisce:

la ritirata inevitabile

che desideriamo per noi

vorremmo che fosse

ancora uno stare

alti

senza diminuzione

 

e dunque la scimmia che scivola

all’indietro

è comunque mossa

in avanti

è tutta presa

senza peso

dal suo andare

 

‘perché -il tale

diceva-

cosa vuoi realizzare

che ne valga la pena

davvero

cosa, se non l’amore?’

e lo diceva

duro

come uno che non ha voglia

di perdere tempo

in cazzate

 

ecco eccolo qui

il numinoso:

all’angolo di una via

o nella lacuna

di un sogno

una svolta

dove all’improvviso

il mare

si mette a parlare

con la città

lingua che s’infila

tra due palazzi

 

e se lo diciamo

è perché esiste davvero

un mare così

esiste ed è il mare

della nostra città

 

(da lì da quell’inizio

non abbiam fatto

che tornare

in un moto

di infinito

allontanamento:

 

tu vai incontro

all’origine

invecchiando

e ciò che col tempo

hai imparato

è stato solo parafrasi

di versi

all’origine ascoltati)

 

 

 


 

IV

 

mai avremmo creduto che un lavoro

da fare fosse passare sul bordo scosceso

della follia fino a poterci dentro

gettare uno sguardo:

non c’è niente

di letterario in essa

ma la sorpresa è che la promessa

che non sappiamo

ancora se falsa

o vera

è di una salute più

piena quasi fosse una sfida

e non un pozzo

 

e invece non c’è da dubitare

che quando un pensiero

si fa ossessione

ed è ridotto ad una immagine

l’intero mondo del senso

e dell’affetto

si appanna

e su quel punto

rappreso

tutto collassa

 

ora in questa battaglia

-se lo è

e non una scaramuccia-

dalla parte nostra

non abbiamo tanto

l’intelletto

che facilmente passa

al nemico col suo sollecito

traffico

d’armi

e argomenti

-tanto che sarebbe meglio

sospenderlo dal servizio

per buona parte

del tempo-

dalla parte nostra

non abbiamo l’affetto

che la follia della sua energia

si nutre e spesso con lui

si manifesta:

dalla parte nostra

senza intelletto e senza

affetto

forse abbiamo un generico

buon senso che ci dice

che se un senso c’è

di praticabilità

del mondo

non può che essere buono

 

e allora l’immagine

che ci inchioda

e succhia il volume

del mondo

e se lo beve

in una cannuccia

di bambino

guardata da quel senso

buono riprende lentamente

le sue probabili dimensioni

e il drago che aveva posto

non ancora la lingua

ma solo una zampa

sulla soglia

del nostro presunto

giardino

comincia a sembrare

un leoncino

e poi un gatto che fa le prove

col topo non ancora sicuro

di come si fa

 

giacchè perfino i gatti

adulti che presumono

di camminare sui tetti

e dominare palazzi

altissimi

finiscono per addormentarsi

sui panni sventolanti

degli alti balconi e

al risveglio cadere

 

che una virgola fuori posto

in date circostanze

può fare l’esplosione

del testo come la cozza

isolata in un piatto

portare il tifo o il colera

 

e allora quale sarebbe

questo senso che ci tiene?

buono perché tiene

a mente la storia

del drago e del gatto

e il bulletto di periferia

viene preso per quello

che è: impaccio

che non sapendo

come fare fa troppo

o troppo poco

s’impiglia quando crede

di dominare

e niente gli risparmia

la pallottola del vigilantes

che già da un’ora

si era appostato dietro

il bancone

 

ma per quel gatto che rompe

due vasi per prendere il topo

per quel topo che neanche

lo era ma solo meccanico

gioco del bambino

sfrecciato nel salone

non diremo noi

che è gran colpa

non essere già adatti

alla caccia

e smaliziati

 

e dunque il topo

ci assomiglia

anche noi non varcammo

soglia

di imbarazzo

e confusione

anche noi accennammo

ad adattamento

impossibile

anche noi ci ritrovammo

dopo breve

tentativo con mani

vuote

che neanche ci avevamo

provato

nell’amore

e già in sua vece

pioveva squallore

 

e allora come potremmo

fare di quel topo

spaurito che credeva

di essere un drago

l’oggetto

di nostra vendetta?

 

 

V

 

eccoci qua: prossimi a riprendere

comando della nave

o navicella della picciola

barca che si prova con brivido

dell’inizio a navigare

- che è diverso dallo stare

a galla solo perché non si hanno

più segreti che dall’interno

bucano col tempo vele e scafo-.

 

eccoci qua dopo aver fatto tra flutti

la giravolta completa quasi fossimo

legati alla canoa quando la testa

nello scosceso di scogli scompare

e sembra per attimo tutto perduto:

ora lo possiamo dire quasi tranquilli

che una parte importante e tenace

di noi è morta e ci siamo svegliati

quando eravamo ancora in corsa

come nel film del viaggio tra stelle

in cui il cattivo a metà del tragitto

interrompe l’ibernazione: il tempo

azzerato ricomincia a scorrere

come nulla nell’immensità del tempo

cosmico

 

ora il tempo è reale e il viaggio

torna a misura umana che non è

affare di stelle ma di tensione tra paura

e suo superamento: non siamo mai

speciali nessuno lo è ci muoviamo

incerti come possiamo e quanto più

alziamo la voce tanto più ci stiamo

mancando mentre l’urlo vero

si fissa in un gesto congelato

 

ora noi veniamo da quel freddo

e dall’oblò le stelle non scorrono

come alberi dal finestrino dell’auto

ma restano stelle del cielo e noi

anche veloci sembriamo fermi

al nostro posto: non c’è altro

da fare che fare pace con nostre

miserie e sentirle fino in fondo

rospi da buttare giù

se vogliamo ancora mangiare

che non importa innanzitutto

raffinatezza di cibo ed esperienze

la tavola solo in parte è decisa

da noi e solo talvolta ci è stato possibile

aggiungere tocco elegante al centro

con vaso luminoso di fiori aperti:

importa possedere corpo che molto

in sangue trasforma e l’accaduto

ringraziare

 

forse per questo c’era piccola

preghiera all’inizio del pranzo

di Natale: perché navi partissero

bisognava fare sacrificio

di ciò che per anni ci era cresciuto

accanto

è strano come parti

di noi malate si fanno per noi

oggetti

sacri d’amore: fu questa

vera tracotanza di Agamennone:

non l’aver cacciato animale

proibito ma aver distolto sguardo

da sua vita concreta per vivere

sogno da re

 

e chi prega intorno alla tavola

già con l’occhio nel fumo odoroso

della pietanza cosa porta di sé?

non l’essere santo per solo

attimo rivolto al sacro ma proprio

quelle malate parti di sé: noi

siamo nell’occhio pieno di orrore

di Agamennone fisso nel terrore

della piccola Ifigenìa

e sapere cosa davvero sacrificare

è già una bella storia

 

e in quel fermarci a mani giunte

noi ci facciamo magico cerchio

 

e dentro, arresi, alla rinfusa spezzoni

di vita –chi può dire agìta

 

o subìta- alla rinfusa ché

a districare ci siamo fatti male:

 

che non solo allora ma anche ora

ci tiene tutti un palmo aperto

 

di mano

 

 

 

i cristiani all’inizio

nell’umidità dei rifugi

dicevano: ‘Signore, io non sono

degno’ e poi dicevano: ‘tu dì una sola

parola e l’anima mia                      

                                    (io non sono

 

degno ma tu dì)

                               (una sola, una sola

parola)

                    (e l’anima mia)

sarà salvata’

 

ed erano in tanti appoggiati

di schiena alle pareti con i topi

già al riparo dentro i buchi

e i suoni del mercato che prima

venivano dalla strada risolti

ora in nulla

in colpi di tosse

in agitazione dei corpi

 

e il Signore che era in loro

forse principio di vita

emissione

iniziale di raggio

da cui protone

prese a stare in equilibrio

e danza

probabilistica

delle particelle

cominciò a disegnare l’intero

che mai fummo in grado

di scorgere

costretti sempre ad un sol polo

limitati in breve spazio

anche nell’ostinazione

da noi stessi fatti

più miseri

 

e questo mistero del vasto

e del senza tempo

questo suono che talvolta

ai più fortunati sembrò formarsi

nella gola per venire all’aria

stupìto di dire ciò

che senza articolazione di parole

era puro senso

questa cosa che chiamavano

Signore forse davvero

diceva loro parola che cercavano

 

è questa parola anzi è questo suono

puro senso che da soli

non avremmo mai scoperto

illusi su nostra auto-

sufficienza

e che scoprimmo solo

quando spezzati

fummo raccolti da chi

da anni già sapeva

che maggiore inganno

è credere di dover dare

senso e non esserlo già

nell’ignorato trafficare

delle strade

 

è questo suono acuto

e grave, limpido e

rauco

pieno e gracidante

questo suono ora

è dentro

al cerchio

di noi che non siamo

già più noi finalmente

 

a mani raccolte

ora

cerchiamo di capire dai moti

di labbra convulse che a noi

 

vengono dallo specchio di fronte

questa parola non sarà solo

 

per noi che non avrebbe senso

che il male non sciolto di uno

 

è in atto o prossimo male

per un altro: dentro al cerchio

con gli spezzoni -alcuni ancora

roventi- di vita alla rinfusa

 

noi cerchiamo di capire la parola

che salvandoci salvi i prossimi

 

a noi dall’odio

per noi stessi

 

 

e ora su quel palmo aperto

di mano che ci tiene proviamo

a starci tutti: ognuno con suoi

occhi bassi e col disagio

di non sapere come stare

in piedi o sedersi

proviamo a guardarci:

 

ciò che più ci ha feriti

al punto da doverlo

dimenticare ci dice che cose

non sono andate come ci piacerebbe

che il racconto deve essere scritto

di nuovo e l’ultimo capitolo

dovrà cambiare

 

 

e ora che di nostre debolezze abbiam fatto

fianchi in cui immergere spade

ora ognuno cercherà il suo posto

e lentamente si piegherà

fino a sedersi e a giungere mani:

 

Signore o Modello che incessantemente

si compie tirandoci dentro

con fili che non sappiamo

scorgere

con nostra testa

di lato ossessi

digitiamo

sui nostri cellulari

cellule che non riconoscono

più il tessuto

negate alla radice

che durano come si dice

un tot  di tempo

totale parziale

e nostra inezia

 

 ‘Signore, non siamo degni ma tu dì

solo una parola, la stessa parola

che balbettando abbiam provato

mille volte a dire e maldestramente

Signore, insegnaci la parola che troppo

confusi siamo per dire e per ascoltare

insegnaci una nuova tenerezza

che le nostre madri furono troppo

oscurate per amarci -loro stesse

da te troppo lontane- fa che l’orrore

di Agamennone e il terrore di Ifigenìa

abbiano avuto un senso, fa che le navi

possano partire che il vento si alzi…

‘Signore, non siamo degni ma amare

per noi è cosa difficile: anni e anni

di disamore hanno coperto la nostra

voce e abbiamo rabbiosamente preteso

che qualcun altro, oscurato quanto noi,

per noi cantasse la tua canzone

 

 

 

 

‘Signore, noi non siamo degni, ma il volto

che stamani vediamo allo specchio

è il nostro e quella bocca ci parla

e fluente scorre la parola e dagli occhi

agli occhi ci riversa un fuoco che fin qui

mai ci ha bruciato: accettalo e l’anima

nostra sarà salvata’


 

VI

 

sembra che cerchio di un anno

si stia chiudendo e a fatica si tira

su la rete con nuovo

pescato: è stato

essere trascinati

dall’arpione al largo

quasi portando la barca

allo sfascio

ma non fu decisione:

forse davvero fu nuvola

che al punto esatto di tempo

interiore -che sfugge-

si trasforma in pioggia

 

cosa c’è nella rete: ecco è questo

che ora va pensato e detto

o semplicemente guardato:

il grosso pesce che si dibatte

è un modo di stare al mondo

che si è rivoltato contro:

ci vuole dire abbiamo fin qui

abitato la nostra mente in un modo

che ora ci uccide, ci dice: è necessità

sgombrare la mente ché quel che appariva

amico fin qui si è rivelato terribile

nemico che oggi sappiamo finalmente

cosa sono le afflizioni

della mente

 

e come un oggetto

di piacere si rovescia

nel suo contrario

ora ci spaventa questo vuoto

come nel sogno dell’ascesa

salire senza vetro

e salendo provare fisica

la vertigine per un mondo

non riconoscibile:

tenere la mente a bada

non è questione etica

ma di salute: non esiste

conoscenza malata

delle cose

esiste solo malattia

che le cose rappresenta

e impone come vere

 

 

bene, ora vediamo l’intreccio

quotidiano tra l’aria che fresca

soffia nella mente e il terrore

e il desiderio che allora

non riconoscemmo, terrore

e desiderio che si mostrarono

solo nell’inganno e nel travestimento

ma furono questi gli eletti

più prossimi alla ferita

e dunque più protetti

da occhi indiscreti: è come se

la vita faticasse a porre i suoi

diritti e fosse più semplice

ripetersi in coazioni che accettare

un dolore semplice ma ricco

di germi, di restare

insomma lì dove c’era stato

l’intoppo e con pazienza

chiedere alle cose

di cambiare e noi

con esse

 

 

 


 

*

 

e per tutto questo ora in piedi

davanti ad un mare sonnolento

che svolge distratto le sue onde

e minaccia senza volerlo

le coste o la presunzione

di chi ha edificato davanti

a lui come di fronte a paesaggio

in piedi noi chiediamo:

 

Signore del mare e dei pesci

abbiamo fin qui considerato

la spuma come se non avesse fondo

abbiamo solcato con vele

come se vele bastassero

a fenderti e a lasciarti richiudere

 

Signore del mare e dei pesci

oggi amaramente scopriamo

che non sei solo paesaggio

abbiamo perso la casa e i beni

abbiamo smarrito la strada

abbiamo temuto per la vita nostra

e dei nostri figli

ma solo nel grande pericolo

abbiamo potuto saggiare la natura

della mente

solo nel grande pericolo

abbiamo visto Te nel flusso

della mente

 

Signore del mare e dei pesci

non abbiamo altro da offrirti

che questi pericoli

le nostre facce stupide

i nostri ghigni orribili

e nostra vergogna

di essere stati presi

e inchiodati da unico

colpo di cerbottana

da scherzo feroce

di nostra mente

dalla quale prendemmo

piacere che non era piacere

sapere che non era sapere

ma che è oggi a pezzi

nel cesto che poggiamo

davanti a te e per te

raccogliamo

 

 

 


 

VII                                                                                                         

 

al ruotare del pianeta l’aria

anche questa volta acquista

in dolcezza: anche quest ‘anno

ci sorprende come un dono

 

 

si disse che guardato dalla fine

solo l’amore è cosa che val la pena

di realizzare e con ciò non s’intendeva

una situazione ma il modo globale

di fare mondo -dentro standoci- e

in ogni cosa da fare -facendola

 

ma quando tutto questo sta

nel palmo di una mano

ogni cosa mostra suo nome

e sopra tutto oltre la mano

c’è il nulla dell’esser già

passati altrove o in niente

 

è così difficile tollerare questa vista

contare con le dita di cosa è fatta

poi la propria vita

e

nome

per nome

avere coscienza

di questo passare: è la malinconia

che si accompagna all’intensità

del desiderio che quando è sano

ha sempre inizio e fine

 

noi –diceva saggia- andiamo

in giro da sempre a chiedere

l’essere da qualcuno

dall’inizio

dal primo sguardo

a fuoco

di neonato oltre il primo

riconoscimento

a fiuto

e la completezza che cerchiamo

nel darci da fare o nello stare

fermi lasciando avvicinare

è cosa che sfugge in breve:

ogni giorno daccapo cerchiamo

il ciclo al suo ritorno quell’attimo

solo che poggia a terra il piede

e sembra senza peso per potere

andare

 

 


 

*

e insomma ora che fare? la scomparsa

dei racconti del mondo in una dittatura

mondiale ci lascia l’uso

solo di una parola

lunga come dura la nostra vita: sarebbe

altrimenti restata sullo sfondo ma ora

è l’unica da svolgere così come di un giorno

si racconta dall’alba

alla notte il farsi

e il disfarsi

di inezie

 

 –come il Tao

che chiedeva come può la durata

di farfalla saperne di stagioni

 

così noi con la storia –

 

 

(nel Paese

occupato non collaborare con nemico

è ricerca di un'altra lingua pur sempre

parlando nella propria pur sempre

restando comuni –anche se di comunità

privi)

 

siamo in attesa di quel che accade

e forse per questo

stiamo accadendo: ci difendiamo

poco e senza riassumerci

in un motto

avanziamo: le cose

possono anche all’improvviso

avere un nome

nuovo

oppure tranquille

persistere in una loro

faticosa

scorrevolezza

 

 

di qui il disagio quando si sta

in mezzo a gente

che fa progetti

che fa e non si capisce

per cosa e perché

come uno che manca

per troppa presenza

come uno che non sa

vuota la natura di quella

presenza

 


 

*

diciamo che siamo stanchi

dei teatrini altrui

e nostri

che piuttosto ce ne stiamo

buoni e zitti

da qualche parte

come chi abituato

a lottare

in un campo

un bel giorno scopre

che il campo

non c’è più

-che questo è accaduto:

la poesia nel Paese

occupato

come in genere la rosa

dei simboli in cui

dice di sé

la vita

non c’è più: ancora

si scrive e si pensa

ancora si fa arte

ma da un’altra parte

 

(una volta si rifugiavano

sulle montagne

preparando imboscate

ora si sparisce nei monitor

e il bosco è salvaschermo )

 

VIII

 

ecco che in una piazza

ritroviamo il nostro vulcano

quella cosa di fronte sulla cui

cima ci siamo mille volte

arrampicati per poi discendere

con quotidiana conferma della cosa

non detta a parole

luminosamente fissa

e alta

 

abbiamo preso nello stile una strada

solitaria e muovendo ci sentiamo

senza terra sotto i piedi: di qui

i capovolgimenti ché senza storia

ci si muove nello spazio in cerca

di approdo

 

per questo la piazza quasi comune

funge da inizio e ci dice che mai

bellezza lo è stata semplicemente

che a lei era affidata la pausa

che fa sentire la musica fatta

di un tocco ripetuto quanto la vita

e quella musica ancora risuona

anche se mai veramente diventata

mondo

 

ché a lui frammisto

è finita meccanica nostra

l’oceano sordo di atti piovuti

giù senza consapevolezza

 

eppure quella piazza -come in guerra

si dice- ‘è stata conquistata’ e il sangue

che aveva fatto lago artificiale

nel cratere spento dalla sua occlusione

ora trova altro luogo da irrorare:

non c’è passato che lo sia davvero

ma soprattutto non c’è luogo a cui

tornare ma solo energia da smuovere

a sé per risonanza

 

c’è ancora tempo per cambiare volto

e se quella è l’anima che nel tempo persiste

a lei va dato ascolto: certo, va composta

la scissione e va messo con forza

l’accento su quell’apertura

di cielo:

una piazza è tale

non per la fontana al centro

o per le case

intorno

ma per il cielo

vasto che la ricopre

 

 


 

*

dunque era questo

il lavoro da fare: giungere

alla Porta

 

e anche se presto

gli abiti ci si richiudono

addosso

il grosso del lavoro

è stato fatto

 

il sospetto della bellezza

dell’essere

oggi non è più sospetto

ma un’esperienza

 

oggi non vogliamo più

che le porte siano chiuse

abbiamo sbirciato

e nella grande sala

c’era un lago verde-chiaro

e profumo di alghe

e di presto mattino

 

ci siamo visti al centro del lago

con i piedi sui sassi del fondale

e le mani che toccavano

il cielo

ci siamo anche voltati

da ogni lato

e da ogni lato c’era il verde

del lago

 

ora siamo sulla Porta

e non sappiamo né ci importa

quali saranno le parole

a venire

noi andiamo oltre i segni

per il tempo che ci resta

 

noi andiamo a ringraziare

per essere stati invitati

al banchetto

 

ora siamo sulla Porta

del ritorno e della restituzione

 

 

 

 

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