Postfazione di Florinda Fusco

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 “Calmati/ e l'eroe che ero io diventerà la bestia che più nulla vuole./Calmati e le scodelle dei poveri si riempiranno[…]/Calmati e avrai il vento in poppa e le tue parole fresche/ di verginità rimeranno con nuova gentilezza”. Il testo iniziale di questo nuovo libro di Cepollaro richiama subito alla mente la potenza di alcuni versi di Amelia Rosselli appena citati. Come in quel caso l’autoesortazione alla calma fa prorompere l’intensità della fatica d’essere e insieme un’indomabile irrequietezza del vivere. A cercare di domare questa devastante tensione è chiamata la scrittura:ora scrivi come hai sempre fatto”, dove il medesimo gesto dello scrivere ripetuto negli anni e nelle fasi più svariate della propria vita è unica casa nel vuoto in cui poter sostare e riposare. E’ atto di riconoscimento verso la scrittura stessa nella sua funzione di sopravvivenza di un corpo (“portare a casa/la pelle”), un corpo ancora intatto, ma che è sul punto di esplodere. E’ in questo prima di una possibile esplosione che la tensione si blocca e la scrittura può nascere. A provocare questa possibile esplosione d’organi è “la piccola/storia sgangherata”, dove consapevolezza della “piccolezza” di ogni cosa del mondo e del necessario distacco dal mondo non bastano a far dileguare la fragilità dell’essere uomo. In un richiamo eliotiano, attuato con slittamento semantico e contestuale, nel testo d’apertura di Cepollaro tutto potrebbe concludersi con un semplice “colpo di tosse”. Da un lato al di là della “finestra” vi è “l’onda del mondo” in cui fondersi e appianarsi, dall’altro al di qua della “finestra”, nel quotidiano senza “volo”, l’uomo non può che chiudere se stesso in piccoli gesti automatici, sedersi, far colazione o farsi la barba. Forse l’unico possibile atto più vicino al “volo” è il chiedere alla propria voce-scrittura di essere spinto in avanti nel percorso vitale e poetico scelto. Ma non è facile nella consolidata consapevolezza di andare/storto nel mondo come uno/ che anche correndo lo fa/con una corda al collo”. Il dolore ormai vecchio e maleodorante è da portar con sé come se nulla fosse, sapendo che è semplicemente e comunemente “roba umana”.

La tensione etica è quella di non fingere e pur di non fingere, fare qualsiasi cosa, fare anche “il morto” (morendo ogni momento al mondo senza finzione), farlo “per non morire”.

La realtà è un amalgama indistinguibile, senza confini delimitanti in cui “non c’è sapere non c’è ignoranza/non c’è neanche alto /e basso”. Per creare confini, distinzioni, classificazioni a cui la cultura occidentale è secolarmente abituata, bisognerebbe prima di tutto domandarsi cosa sia il sapere e cosa l’ignoranza, cosa sia l’alto e cosa sia il basso. Ma se il punto di vista è decentrato, a questa domanda avremmo solo risposte relative al punto d’osservazione dal quale si parla (al punto di vista in cui siamo inchiodati), relative culturalmente e antropologicamente, e che pertanto si annienterebbero a vicenda. In una storia come quella occidentale che per Cepollaro sembra muoversi per sottrazione, cosa può cambiare?:“e la vita di fuori/(quella che resta/sottratta allo sterminio/della storia)/è ridotta a ben poca cosa//i grandi cambiamenti/sono spesso solo cambi di indirizzo/o di modi di vestire.” L’attenzione non può che spostarsi alla vita della mente che è flusso continuo dove tutto si confonde, dove realtà e immaginazione sono intercambiabili e occupano lo stesso spazio, hanno lo stesso peso. Ed è questo pianeta, il pianeta della mente, che per Cepollaro diviene il luogo in cui poter camminare, in cui poter andare avanti e cambiare.

E’, in altri termini, il “fare anima”, espressione usata da Cepollaro che richiama immediatamente Hilmann (e attraverso Hillmann, Jung), l’unico compito reale e vero che rimane all’uomo. Ma nella società dello spettacolo “[…]fare anima ci suona/quasi minaccia”. Si tratta di una “formula magica”? O di una nuova moda new age? Per Cepollaro “fare anima” è un compito, un lavoro, l’unico vero possibile. Il fare anima è il lavoro di un’intera vita, lavoro faticoso. Non vi è una rinunzia al fare, ma al contrario una devozione al fare, a un fare che è soprattutto azione della mente:“spingere la mente al fare/nei modi e nei tempi/che sono della mente”.

Si potrebbe forse parlare di una tensione ad una storia dell’anima, in cui l’anima diviene il centro principale d’attenzione della scrittura: “fare dell’anima/la nostra vita/gettare un ponte/tra ciò che siamo e ciò/che comunque eravamo già/da prima”. E’ un richiamo ad una traiettoria ancestrale ed archetipica dell’anima e della sua memoria che non è più solo anima individuale, ma anima collettiva, così come la memoria che s’intende recuperare è un “oltre” junghiano della “memoria individuale”. Vi è un continuo richiamo all’”origine”, a un’origine mitica in cui tutto è presente e tutto è già detto e ascoltato. Ciò che ha valore nella storia dell’anima è la sua capacità di divenire, mutare insieme al continuo mutamento delle cose: “l’importante è non restare/incistati in una vita/bloccata” e “non dare requie/al cadavere/che addosso ci portiamo”. La forza centrale del percorso è il mutamento, l’“ energia da smuovere”, per seguire “l’onda del mondo”. In questo irrefrenabile mutamento del tutto in cui le memorie “sono già aria”, vi è un continuum di generazione e dileguarsi delle cose: “le cose che generano/scompaiono nella stessa/generazione”. La principale tensione dell’io sembra essere quella della perdita del possesso del sé “ed è che noi non siamo/nostri” e di una preparazione e di una consapevolezza al suo ineluttabile dileguamento materiale. E la prima lotta in questo senso è la lotta contro l’umana paura. La scrittura stessa diviene momento sostanziale di tale preparazione e del saper “nuotare negli strati/del cervello”.

Se siamo in movimento, in un moto che è conoscenza, non ha più importanza per l’anima “che siamo ognuno ad un certo/punto/del binario”, l’importante è essere in cammino, l’importante è  il lavoro da fare.

Nell’approccio al mondo è primo passo da compiere, attuare un distacco dall’intelletto che produce armi-argomenti:“dalla parte nostra/non abbiamo tanto/l’intelletto/che facilmente passa/al nemico col suo sollecito/traffico/d’armi/e argomenti/-tanto che sarebbe meglio/sospenderlo dal servizio/per buona parte/del tempo-“. Solo nella sospensione può esserci un inizio di conoscenza poiché la conoscenza può avvenire in una mente sgombra, in un recipiente anche momentaneamente svuotato: “abbiamo fin qui/abitato la nostra mente in un modo/che ora ci uccide, ci dice: è/necessità/sgombrare la mente”. E la possibilità di svuotarsi può raggiungere stadi diversi fino a uno stadio in cui si può toccare “il nulla dell’esser già/passati altrove o in niente”.

Il tempo può essere “azzerato” e i singoli individui non hanno più rilevanza per la loro individualità: “non siamo mai/speciali”. Nella storia occidentale per Cepollaro è l’essere travolti da uno sfrenato individualismo a chiudere ogni strada alla conoscenza. All’individuo si oppone la figura della “piazza” in cui gli uomini stanno insieme e sono insieme. La piazza è luogo comune.

Da un lato si legge il disagio dello scrittore verso la progettualità raziocinante del mondo, ma dall’altro l’atteggiamento di chi scrive non è certo di disillusione, è quello di un’apertura gioiosa al cambiamento in una realtà invisibile, in cui l’uomo deve in primo luogo curare la propria scissione, la scissione persona-anima: “c’è ancora tempo per cambiare volto/e se quella è l’anima che nel tempo persiste/a lei va dato ascolto: certo, va composta/la scissione e va messo con forza/l’accento su quell’apertura/di cielo”.  

Il lavoro dell’anima è un lavoro di cui è difficile parlare, è un lavoro che si può soltanto “fare”. Ma la scrittura sembra voler essere testimonianza e invito al “lavoro” e insieme documento di un’esperienza raggiunta: “il sospetto della bellezza/dell’essere/oggi non è più sospetto/ma un’esperienza”.

L’impressione che si ha di questo testo è che si tratta di un testo che vuole dire, che ha una certa urgenza di dire, e che sceglie l’espressione diretta, spoglia di qualsiasi tecnicismo o manierismo, al di là di qualsiasi modello letterario, proprio perché vuole essere testo dell’anima.

I richiami alla tradizione di pensiero orientale, assai ricca e poco conosciuta, sarebbero molteplici. Mi limito a citare un pensatore contemporaneo come Coomaraswamy che riapre alcune questioni fondamentali della filosofia orientale mettendole a confronto con il pensiero occidentale e con le scoperte della fisica moderna. Ma, nell’ambito della cultura occidentale, bisogna notare che pochi pensatori contemporanei si sono ‘esposti’ a parlare con serietà della ricchezza e vitalità del pensiero orientale (di quello buddhista, di quello induista, di quello taoista) e del peso che ha avuto sulla nostra tradizione filosofica. Può venire in mente una figura anomala come Simone Weil che ha cercato coraggiosamente di disegnare tracciati che creassero collegamenti tra pensiero occidentale e pensiero orientale. E concluderei a tal proposito riprendendo un passaggio di Jung particolarmente significativo in questo senso, nella sua prefazione all’ I’ Ching. Libro dei mutamenti: “Per capire in generale di cosa tratti un simile libro è imperativo buttare a mare certi pregiudizi della mentalità occidentale. […]”. Jung si trova di fronte alla difficoltà di “conciliare” il libro dell’antica civiltà cinese con “i canoni scientifici correnti”. Ma ciò nonostante afferma: “So che in passato non avrei osato pronunciarmi così esplicitamente su una materia così incerta. Ora posso correre il rischio perché ho superato gli ottant’anni, e le mutevoli opinioni degli uomini non mi fanno più impressione; i pensieri degli antichi maestri hanno per me maggior peso dei pregiudizi filosofici della mentalità occidentale”.  

Florinda Fusco