LETTURE CRITICHE

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Indice

 

Andrea Inglese   L’impossibile concreto. Lettura della poesia di Biagio Cepollaro

 

Giorgio Mascitelli  Nota su Lavoro da fare

 

Giuliano Mesa   Nota su lavoro da fare di Biagio Cepollaro

 

Francesco Marotta  Note su Lavoro da fare di Biagio Cepollaro

 

Jacopo Galimberti  Luoghi della poesia civile e lingua dell'anima. Lettura di Lavoro da fare

 

Luigi Metropoli  Lavoro da fare: riformulare l'umano.

 

Andrea Inglese

L’impossibile concreto. Lettura della poesia di Biagio Cepollaro

1.

Farò tutto il contrario di quanto vorrei fare. Biagio mi ha chiesto una nota di lettura. Io sento che varrebbe la pena di offrire un abbozzo di analisi strutturale della sua opera poetica, anche solo in forma di taglio trasversale su certi temi e figure chiave, ma non sono ora in grado di farlo: il precariato accademico mi risucchia energie in altre direzioni, verso strane forme di sopravvivenza al di sotto del ruolo, in un purgatoriale lavoro senza occupazione. Tale condizione mi spinge allora a tentare un’altra strada, tutta in rapidità e improvvisazione. Me lo permetto, perché è la figura stessa di Biagio, la sua odierna attitudine di poeta, che mi consente questa libertà. Si può mettere in gioco, nella lettura di un’opera, la nostra esperienza, la nostra amicizia con l’autore, senza per questo rischiare il compiacimento? Vedremo. (Uno che ci riesce perfettamente è Giuliano Mesa – vedi le sue postfazioni a Fabbrica e a Versi nuovi, le due precedenti raccolte poetiche di Cepollaro. L’altro, è Cepollaro stesso.)

2.

Perché l’esigenza di uno studio comparativo, globale, del percorso poetico di Cepollaro? Per contrastare, innanzitutto, un effetto peculiare delle sue raccolte di poesie. Ogni suo libro, infatti, rivela una tale forza ipnotica da azzerare tutti gli altri, da imporsi come assoluto, non confrontabile, pervaso da cima a fondo, dal primo verso all’ultimo, da una certa gestualità verbale. Insomma, ogni raccolta emerge nella sua nettezza, quanto a partito preso stilistico e tematico. D’altra parte, l’altra faccia di questa nettezza, è la percezione di una forte discontinuità rispetto al percorso precedente. Questo accadeva con Fabrica (1993–1997), ultima parte del trittico De Requie et Natura, pubblicata nel 2002. Fabrica segnava una prima forte frattura rispetto alle due raccolte precedenti, Scribeide e Luna persciente. Ciò che veniva vistosamente abbandonato era l’originale ed efficacissimo innesto del volgare di Jacopone da Todi e del dialetto napoletano nell’italiano medio attuale. A tale impasto linguistico estremamente espressivo, subentrava una lingua spoglia, una lingua–oggetto, che poco margine lasciava alle operazioni “espressionistiche” del soggetto. E se un verso della raccolta dice del mondo:“sotto modi di dire i suoi moti di fatto ha seppellito” (Per moti di dire), ciò significa che al poeta non resta che restituire l’ingombro, l’opacità, la pesantezza dei “moti di fatto” nei suoi “modi di dire”. Al margine di manovra offerto dal diaframma della lingua jacoponica, capace di tenere a distanza la presunta immediatezza delle cose, si sostituisce ora una più volontaristica postura: quella dell’epigramma o, addirittura, dell’invettiva. Caduto il diaframma linguistico dell’idioletto, al soggetto poetante non resta che la nuda armatura ideologica, di pensiero critico, per distanziare la pressione bruta dei moti di fatto. Ma laddove in Scribeide e in Luna persciente era percepibile una funzione assieme di denuncia e di giubilo della lingua, in Fabrica prevale la denuncia. Il risultato è un andamento per distici ipermetri, spesso addirittura scavalcati da una o più parole, a segnalare una registrazione senza dubbio lucida, ma fondamentalmente risentita della lingua–oggetto. Leggiamo da per mondi mediali non più

per mondi mediali non più territoriali ché dicono passato

ormai lo stato forma peritura usa un tempo a convogliare

capitali e infrastrutture

 

per pure antenne domiciliari per ali per fenomenali intrecci

di cavi per vie nervose per cerebrali allacci e terminali

 

(…)

Il soggetto è così ridotto al ruolo di punto di vista giudicante di fronte a uno scenario in cui si accalcano “fatti”, senza che tra di essi sia possibile prendere posto, sperimentare una sintonia emotiva o fornire una risposta diversa dal puro diniego. Nei due libri precedenti, l’idioletto costituiva non solo un diaframma difensivo, ma anche un territorio abitabile, un inframondo tra la soggettività del poeta e il saturo paesaggio delle merci. In Fabrica l’opposizione è invece frontale, e più scoperta è dunque l’attitudine giudicante, ma inevitabilmente anche più fragile, a fronte di un’invasione onnilaterale delle frasi–oggetto. Aveva dunque ragione Mesa ha parlare di Fabrica come di un libro di “crisi” e di “transizione”: ma anche in quest’ottica, il libro di Cepollaro appare compiuto, la crisi trova la sua adeguata e peculiare lingua, la transizione non appare come un’incertezza delle soluzioni formali, ma come una specifica forma che mantiene in sé sia tracce del passato che elementi inediti.

3.

Ma di quale crisi stiamo parlando? Tema esplicito di Fabrica è l’attraversamento di una profonda crisi, che è strettamente legata ad uno stadio di inasprimento accelerato dei rapporti sociali e delle forme di vita all’interno delle società occidentali e tardocapitalistiche. Ma la crisi di cui parla Mesa è un’altra, di portata minore e biografica. Essa costituisce il tema del libro successivo di Cepollaro, Versi nuovi (1998–2001). Questo libro è incentrato su un’esperienza di conversione nel senso più tradizionale del termine. Il soggetto giudicante di Fabrica ha abbandonato la sua postazione panoramica, l’architettura ideologica che sosteneva la sua contrapposizione frontale con il mondo ha cominciato a frantumarsi, e in questa situazione di inevitabile dolore e rovina sono però emersi varchi di prossimità e fratellanza imprevisti con il mondo e gli esseri umani. Se dunque Fabrica segnava una frattura rispetto ai primi due libri del trittico, Versi nuovi segna una frattura rispetto all’intera impostazione che aveva animato il trittico. Abbiamo nuovamente un mutamento di forme e di lingua, ma soprattutto un mutamento di postura del soggetto poetante.

4. (Prima parentesi. Nell’evoluzione del lavoro poetico di Cepollaro caratterizzata da fratture e rivoluzioni, dove pare non esserci mai una progressione per integrazioni successive, ma solo strappi violenti e bruschi mutamenti di rotta, alcune costanti rimangono riconoscibili. Una delle più evidenti è il nesso vita–scrittura. Questo nesso, che è emerso nel giovane Cepollaro all’insegna di un’ideale programmatico, si è poi mantenuto attraverso crisi e conversioni, manifestandosi, anzi, nella sua esasperata necessità. Il nesso dunque è rimasto, ma è profondamente mutato il sistema di valori a cui esso rimanda. Durante la fase giovanile, nella prospettiva eroica e agonale veicolata dall’eredità avanguardista, la vita doveva inverare la scrittura, l’azione colmare lo scarto che la scrittura pone tra il soggetto e il mondo. L’esigenza di rimanere fedeli a questo nesso, era anche un modo per verificare la legittimità della propria auctoritas di poeta e intellettuale. Dopo la conversione, il modello eroico e agonale è stato rigettato, ma non la fedeltà al nesso vita–scrittura. Ma ora è la scrittura che apre uno spazio di salvaguardia necessaria, di tutela costante, di fronte ad una vita che appare in tutta la sua fragile esposizione alla sorte. La scrittura è dunque forma indispensabile, seppur limitata e provvisoria, per procedere all’emendamento dei guasti. “Emendamento dei guasti” s’intitola, infatti, la prima sezione di Versi nuovi. Dunque la vita ha bisogno di questo spazio di “purificazione”, tanto più quanto l’io è ormai spoglio anche di quell’armatura ideologica che gli offriva un punto di vista giudicante sul mondo. Quest’armatura ideologica era costituita dal pensiero critico di matrice marxista. Essa non viene sconfessata dall’autore di Versi nuovi, ma arretra sullo sfondo, cessa di essere la chiave di lettura predominante, il punto orientativo della visione nei confronti degli eventi quotidiani. L’effetto, da un lato, è quello di smarrimento del soggetto, dall’altro, di sfaldamento del quadro generale in cui esso è inserito. Insomma, viene meno la possibilità di pronunciarsi sui “destini generali”, laddove con estrema problematicità e urgenza emerge la storia individuale, ricca di nodi irrisolti e lacune, di gioie e paure. Questo smarrimento, però, è percepito come un’importante occasione per approfondire la conoscenza di sé e riconoscere la “precarietà” costitutiva della propria presenza al mondo, che si manifesta indipendentemente da quelle stesse circostanze storiche che tale precarietà possono accentuare o adombrare.

Questa lunga parentesi ha come scopo di ricordare la centralità del nesso scrittura–vita, che in Cepollaro non assume mai comunque i toni dell’autoironia, della mascherata tra l’indulgente e il sacrificale che ritroviamo in Giudici e, seppure con toni più grotteschi e parodistici, in Sanguineti. In entrambi questi autori il nesso scrittura–vita è esibito costantemente, ma attraverso una forma di esorcismo ne è anche disinnescata l’eccessiva gravità. In Cepollaro, invece, questa gravità persiste fino a quest’ultima raccolta, Lavoro da fare. Nessun tentativo ludico o teatrale di depotenziare questo nesso, quindi, ma neppure esigenza di esibirlo. Esso è ossessivamente presente come condizione stessa del vivere: senza la zona di arretramento e messa a distanza fornita dalla scrittura, la vita di Cepollaro parrebbe segnata da puntuali ma ricorrenti disintegrazioni. Alcune poesie di Lavoro da fare sono infatti ricomposizioni di esperienze ai limiti dell’esplosione (o dell’implosione): dove meno conta la specifica causa scatenante – che può essere, ad occhi estranei, importante o infima – rispetto all’emblema che essa finisce per assumere, di minaccia per l’equilibrio esistenziale del soggetto. Cito, ad esempio, i primi versi della poesia d’apertura:

calmati o il cuore ti scoppierà e non è metafora

poetica ma proprio sordo tonfo d’organo

risposta che travalica

domanda e nel vuoto degli occhi

si schianta

ora scrivi come hai sempre fatto

e non scherzare più col fuoco

della vita

(…)

Per tutte queste ragioni siamo inevitabilmente scivolati dal Cepollaro–autore al Cepollaro–personaggio (personaggio, e non maschera), e ci stiamo permettendo, piuttosto che una seria analisi strutturale, una più rischiosa ipotesi psico–critica. Ma la componente autobiografica esplicita nelle due ultime raccolte, seppure bilanciata da altre componenti di natura diversa, giustifica per certi versi questo percorso di avvicinamento al testo.)

5. Nei confronti di Versi nuovi e ancor più di Lavoro da fare ho avuto come un riflesso crociano: ho sentito l’esigenza di andare, in queste raccolte, alla ricerca della poesia. Ciò non deve neppure stupire. Dopo la “conversione”, Cepollaro ha consapevolmente e sistematicamente ridotto il tasso di letterarietà dei suoi testi, ma non nella prospettiva di qualche residua strategia anti–letteraria di matrice letteraria (ancora mosse avanguardistiche). No, lo ha fatto per un’esigenza di “purezza”. E si legga: una volontà di denudarsi, di diminuirsi, di ritrovare gesti semplici, elementari. Lo sfrondamento avrebbe potuto farsi in nome della “verità”, ma seppure tale ombra (terribile) non è del tutto assente dalle ultime due raccolte, vi è un moto che costantemente la schiva, come si schiva una pericolosa tentazione.

D’altra parte, il primo a porsi la domanda è stato, ancora una volta, Mesa: “Sì: mi chiedo perché sono scritti in versi, i Versi nuovi. Che sono un libro di meditazione. Che diventa un libro di devozione.” Per quanto riguarda Versi nuovi, anch’io so perché quella meditazione e quella devozione è anche poesia. (Anche se, diciamolo ora, sono quasi convinto che a Cepollaro non importi più rassicurarsi sul fatto di scrivere ancora della poesia. E ciò non inficia per nulla la necessità del nesso vita–scrittura. Non abbiamo infatti parlato di vita–poesia. La scrittura rimane modalità di vita per Cepollaro, anche se non dovesse più o non potesse più essere riconosciuta come “poesia”.)

            Quello che Biagio scrive in Lavoro da fare assomiglia molto a della preghiera. Se i suoi testi fossero esclusivamente dei testi di preghiera penso che smetterebbero di interessarmi. Il motivo è semplice: nella sua pura dimensione letterale la preghiera non può interessare un ateo. E io lo sono. Come parola che, ringraziando o invocando dio, dice anche altro, parla dell’uomo, della psiche o del mondo, allora la preghiera interessa anche un ateo. Ma innanzitutto non credo che Lavoro da fare sia una raccolta di preghiere. Me lo dicono, ad esempio, le due poesie di apertura della raccolta (calmati o il cuore ti scoppierà e non è metafora e ora ti tocca prendere) che sono forse le più belle, senz’altro le più intense e definitive. E fanno pensare a quelle visioni di “denudamento” di Beckett. Qui la devozione è rinviata a tempi migliori, e la creatura gioca esclusivamente su di sé l’impatto violento della sorte.

6. No, non posso già parlare di Lavoro da fare. È troppo presto. Ho cominciato solo adesso, leggendo comparativamente quest’ultima raccolta e quella precedente, a capire un po’ meglio la precedente. Posso però citare dei versi che trovo, che meglio rappresentano la forza penetrante di questa “nudità” di sguardo e di tono:

(…)

e quindi ricominciammo

dalla fine: cose

e spettri si equivalgono per la vita

della mente

e la vita di fuori

(quella che resta

sottratta allo sterminio

della storia)

è ridotta a ben poca cosa:

 

i grandi cambiamenti

sono spesso solo cambi di indirizzo

o di modi di vestire.

Ma è questa una tentazione crociana, ancora. Andare a estrapolare dei versi in qualche modo “conchiusi” da quello srotolarsi del ragionamento, da quel “vedere parlando”, da quella meditazione e autoanalisi, che costituisce lo specifico dell’ultimo versificare di Cepollaro. Versificare che pare liberarsi anche di quella che è stata a lungo la sua più sicura, talentuosa, seconda natura di poeta: la tecnica del montaggio.

7. (Chiusura con seconda e ultima parentesi. La storia delle diverse raccolte poetiche di Cepollaro fino ad oggi, potrebbe essere riassunto attraverso un titolo: l’impossibile concretezza. (Si legga qui il contrario di un’attitudine epicurea, in Cepollaro prevale un’ossessione di tipo filosofico di più radicale portata: il concreto non è la superficie, ma l’armatura profonda del mondo, l’ossatura elementare, laddove i fondamenti ultimi si confondono con il nulla.) Nel concreto è il presente che si manifesta (e nient’altro che esso), così come il corpo sensibile. Il concreto è il sogno, l’utopia dell’immediatezza. Il marxismo ha insegnato a Cepollaro che l’immediatezza, nel mondo capitalistico, è menzogna. Che la realtà delle cose è accessibile solo mediatamente. Ecco allora il diaframma dottrinario del marxismo come garanzia di una recuperabile concretezza. Ma il diaframma non solo accompagna, ma chiude: la cura si trasforma in male. Nel frattempo, però, la lingua di Jacopone è una promessa di massima concretezza: la concretezza del mistico. Colui che ha fatto esplodere i diaframmi dell’impalcatura ideologica, per andare all’esperienza di Dio, muta e immediata, nella “carne del mondo”. La conversione, esperienza cruciale di Versi nuovi, segna il ritrovamento dell’immediatezza, del concreto? Insomma, il ridimensionamento radicale del diaframma dottrinario marxista segna una semplice “regressione” ad una fase pre–teorica ed ingenua? No. Le esperienze di meditazione buddista e la pratica del Tai–chi–chuan sembrano offrire, da un lato, una possibile conciliazione sempre sognata con “il concreto”, dall’altro la differiscono indefinitamente, in virtù di un percorso estremamente arduo e lento. Eccoci dunque al paradosso delle raccolte “dopo la conversione”: esse, avendo ricercato una postura “post–teorica” (rispetto al marxismo) e ricollocando lo sguardo del poeta nella massima prossimità, quasi cieca, del concreto, si trovano costantemente a combattere con la “mente”, in tutte le sue dimensioni di astrazione, mistificazione, deformazione. E una delle parole–chiave di queste due ultime raccolte è appunto “mente”, con tutti i suoi sinonimi: “cervello”, “intelletto”, “testa”, “pensiero”, ecc. Di conseguenza, uno dei principali leit–motiv è quello della “liberazione dalla mente”. Se ne possono trovare in numeri esempi tanto in Versi nuovi che in Lavoro da fare. Scelgo da quest’ultimo libro:

(…)

ci vuole dire abbiamo fin qui

abitato la nostra mente in un modo

che ora ci uccide, ci dice: è necessità

sgombrare la mente ché quel che appariva

amico fin qui si è rivelato terribile

nemico che oggi sappiamo finalmente

cosa sono le afflizioni

della mente

(…)

Forse il tema più convincente di queste poesie non è tanto quel “concreto” che ancora pare inattingibile, ed impossibile, nonostante sia costantemente invocato. Forse il tema vero sono proprio le “afflizioni della mente”, ma anche i “sollievi della mente”, quegli sprazzi di pace e di concentrazione calma, di visione tersa e chiaroveggente. Il luogo comune dell’ultima poesia di Cepollaro è ancora questa “cattura nella mente”, e la povertà esistenziale di questa condizione, che ci riguarda tutti. Non dunque un resoconto di saggezza, più o meno prossima, forniscono questi versi. Essa riguarda semmai l’autore, il suo percorso al di fuori dei versi. Ma nei versi, quello che veramente ci incanta e chiama, è questo dibattersi con noi stessi che conosciamo, questo dibattersi per la felicità e il presente, per l’amore dato e per il concreto vissuto. Con anche imprevedibili doni, a volte.)

 

 

Giorgio Mascitelli

Nota su Lavoro da fare

 

Il poemetto Lavoro da fare di Biagio Cepollaro si apre con la descrizione di un attacco di panico, non in senso metaforico, ma, come precisa il poeta, in senso letterale, proprio uno di quelli di cui per esempio si parlava qualche sera fa nella trasmissione televisiva sui problemi della salute, e anche i comportamenti a cui Cepollaro accenna per uscirne sono quelli pratici immediati e utili da seguire in questi casi ( respirare profondamente, tranquillizzarsi, concentrarsi su piccole cose). E questo attacco a sua volta è sintomo non di un conflitto interiore sui massimi sistemi, ma delle contraddizioni e delle paure di una piccola e sgangherata storia simile a quella di molti, ma solo da lì si può partire a parlare secondo l’autore: “ognuno parla davvero/ se lo fa/ dal chiodo/ che un bel giorno/ l’ha fissato”. Non si tratta solo di una forma radicale di onestà intellettuale nei confronti del lettore, ma della realizzazione di una tensione a uscire dal personaggio poeta per comunicare esperienza umana. I manuali di letteratura ci spiegano infatti che la parola io in poesia va accolta con molta prudenza, perché quest’io poetico o meglio io lirico, come viene chiamato solitamente, si carica di caratteri e tratti nobilitanti e precostituiti che lo rendono un vero e proprio personaggio letterario, ora anche Cepollaro, come molti poeti legati all’esperienza delle avanguardie, quando tra gli anni ottanta e la prima metà dei novanta scriveva i suoi libri confluiti nella trilogia De requie et natura, era molto polemico nei confronti di questo io lirico, tant’è vero che nei suoi testi egli era solito chiamarsi con il nome autoironico e sminuente di scriba. Usando il nome degli antichi artigiani egizi della scrittura intendeva contestare con grande consapevolezza sociale e culturale la pretesa di nobiltà dell’io lirico e della figura del poeta, tuttavia per quanto consapevole e autoironico lo scriba tratteneva in sé qualcosa dell’io lirico: la presunzione dell’eccezionalità della propria esperienza. Paradossalmente in questa parte iniziale di Lavoro da fare Cepollaro realizza uno degli obiettivi della sua fase precedente ovvero il superamento dell’identità idealizzata di poeta. Secondo me due cose provano la veridicità della mia affermazione: innanzi tutto che i versi citati non sono una dichiarazione di poetica, ma sono versi difensivi di autogiustificazione, in cui il poeta sente il bisogno appunto di giustificare il suo senso di lontananza dal mondo dopo la crisi, dunque non annunciano un programma per la poesia, ma semplicemente spiegano una condizione soggettiva ( che poi certe condizioni soggettive risultino più interessanti per tutti di molti programmi oggettivi è una cosa talmente ovvia che non vale la pena di dirla);  in secondo luogo nella prima sezione Cepollaro si sofferma sul contrasto tra mutamento e desiderio di stabilità nella vita, sostenendo che nessuna acquisizione del proprio io per quanto importante ci può salvare da questa dinamica di cambiamento, insomma l’esperienza di ogni genere è significativa, ma non può cristallizzarsi in una saggezza che sa già tutto della vita: e dunque non c’è più spazio per nessuna eccezionalità che si pone come esemplare.

La quarta sezione del poemetto riprende la concretezza psicologica della prima, nello svelare i meccanismi mentali della paura attraverso la storia del drago che si trasforma in topo meccanico, nata dall’esperienza della  propria paura e il poeta si riconosce nel gatto che rompe due vasi per prendere il topo. Questo motivo della paura portatrice di illusioni, fughe da sé e comportamenti distruttivi non è solo autobiografico, ma diventa generale con un riferimento al mito di Ifigenia in Aulide, che viene però rovesciata rispetto alla classica narrazione lucreziana del De rerum natura, l’invito del poeta infatti è a riconoscersi nello sguardo di Agamennone, la cui colpa vera è “aver distolto sguardo/ da sua vita concreta per vivere/ sogno da re” e nel quale possiamo scorgere la nostra stessa paura. L’umanizzazione della figura di Agamennone, notoriamente una delle figure più negative dell’intera letteratura greca, è per immaginazione poetica uno dei punti più alti del poemetto, ma come lettore vi scorgo anche la tentazione di trarre da una revisione personale del proprio passato una legge generale, e dunque ancora un’esperienza eccezionale.

L’altro motivo che percorre Lavoro da fare, con espressione poetica particolarmente intensa nella quinta sezione, è il motivo religioso di umiltà e di senso della propria pochezza che sacralizza in qualche modo la vita che uno può salvare così grazie a questa umiltà, che nasce dal conoscersi almeno un po’. Questo motivo è sorretto da un senso di colpa non tanto  dovuto a comportamenti nei confronti di altri, anche se naturalmente non mancano sia qui che in Versi nuovi cenni autocritici in tal senso, ma soprattutto nei confronti di se stesso, per i danni causati alla propria vita dall’aver creduto troppo al mondo o meglio dall’aver scambiato i riflessi del proprio ego per la realizzazione di un progetto nella società ( da giovani si cerca fuori/ e si convince/ o costringe/ il mondo a seguirci). Questa constatazione religiosamente genera in Cepollaro un senso di contrizione del cuore. Specifico che si tratta di una religiosità estremamente personale e non riconducibile a nessuno dei revival o degli evergreen oggi in voga, che è già latente nella fase in cui Cepollaro ancora nutriva le speranze connesse con una dimensione storica collettiva, scrive infatti nella prima sezione “ e noi che non potemmo essere/ uomini di fede/ fummo costretti ad inventarci/ qualcosa/ che alla fede somigliava/ un disperato e impossibile/amore per le altre/ creature”. Ma la storia ha distrutto in un ambito collettivo questa tensione, anche se Cepollaro avverte taoisticamente che la nostra individualità non può percepire la dimensione ampia del tempo storico, va però detto che la storia è sentita come un bulldozer della barbarie che avanza ed è di danno a qualsiasi forma di vita. Tuttavia questo pessimismo, del resto difficilmente contestabile in questi nostri travagliati giorni, non diventa mai lo sguardo assente di un pessimismo onnisciente che sa già come andranno le cose perché è convinto di sapere benissimo come sono sempre andate: qui non si danno mai giudizi drastici e astratti su una malvagità della natura umana e c’è sempre il senso del profondo valore di alcune conquiste storiche che si vanno perdendo ( se la barbarie avanza adesso, vuol dire che un tempo è avanzata anche la civiltà) e addirittura un appello morale alla resistenza culturale ai meccanismi del potere mediatico nella società. Ma naturalmente il lavoro da fare è lavoro che riguarda innanzi tutto il senso della propria esperienza e la poesia è lo strumento malleabile di questo percorso, senza diventarne mai il monumento.

 

Milano, 2006

 

 

Giuliano Mesa

Nota su Lavoro da fare di Biagio Cepollaro

      In Lavoro da fare, nel testo di prologo, si legge: “quello / che non ti fu dato all’inizio / non cesserà mai di mancare”. Associando frammenti di memoria culturale, si pensa sùbito ai Four Quartets di Eliot (East Coker I, “In my beginning is my end”) e all’Eraclito da Eliot richiamato e posto in esergo (“hodòs áno káto mía kaì houté”, “strada all’in su e all’in giù una sola e medesima”: fr. B60 Diels-Kranz, A 33 Colli). E vi si pensa anche perché, pochi versi prima di quelli appena citati, Cepollaro ci offre un’ulteriore variante del distico conclusivo, ormai divenuto formulare, di The Hollow Men (“This is the way the world ends / Not with a bang but a whimper”), scrivendo: “e non scherzare più col fuoco / della vita / o in una di queste mattine la piccola / storia sgangherata e sempre / pronta a rimangiarsi il cielo / finirà tra lo strepito del condominio / non come si chiude un volo / ma come un colpo di tosse”.

            Ancor più dei Versi nuovi, questo è un libro “di meditazione e di preghiera”, e potrebbe sembrare irriguardoso soffermarsi sui riferimenti culturali. Potrebbe non esserlo ricordando che il “lavoro da fare” “non è lavoro / da fare da soli”. E’ anche, dunque, “lavoro fatto”, nel corso dei millenni. E il legame con questa tradizione di lavoro è lo stesso Cepollaro a ribadirlo, ribadendo, nella V sezione, la memoria di Ifigenia e Agamennone.

            Che cosa “suoniamo”, “con corde rimediate / tra le rovine della storia”? A questa implicita domanda, nella sezione II, sembrano rispondere alcuni versi della sezione V: “è questo suono acuto / e grave, limpido e / rauco / pieno e gracidante / questo suono ora / è dentro / al cerchio / di noi che non siamo / già più noi finalmente”. E il percorso, anche il percorso del libro, conduce alla “Porta / del ritorno e della restituzione”, ritorno al mai stato e restituzione del mai avuto. “tu vai incontro / all’origine / invecchiando / e ciò che col tempo / hai imparato / è stato solo parafrasi / di versi / all’origine ascoltati” (III). Si “suonano” parafrasi di versi, di suoni, ascoltati all’origine, ma quell’origine è una memoria immemorabile, sempre mancante, “non data all’inizio”. Quell’ascolto, se fosse davvero accaduto, avrebbe dovuto consentire la mimesi, non soltanto la parafrasi. Quel suono onnicomprensivo, onnisonante, risuona dentro il cerchio che congiunge la fine e l’inizio, la strada che scende e quella che sale – il cerchio dentro cui si può giungere e stare, soltanto, finalmente, non essendo “più noi”.

            Così, il lavoro di Cepollaro sembra un lavoro a de-formare, a slegare suono e senso per non de-legare più alle forme una nominazione potenziale impossibile, che nel darsi come potenziale può allontanare dalla consapevolezza della sua impossibilità. E tuttavia parlando, dicendo. E ogni parlare e dire è sempre, anche, un formare, un fare e dare forma. Questa contraddizione non ha superamento. Ma può non essere conflitto se si abbandona l’ab-soluto per restare dove siamo: nel legame, nella relazione, con tutti i conflitti e le contraddizione che vorremmo sciogliere, ab-solvere. Forse non c’è soluzione. Forse non c’è assoluzione.

 

 

Jacopo Galimberti

Luoghi della poesia civile e lingua dell'anima. Lettura di Lavoro da fare

 

Caro Biagio ho cercato di annotare alcune cose che mi sono parse interessanti, te le comunico in questa lunga lettera.

Innanzitutto mi pare che una delle traccia per capire il tuo libro sia quella di pensarlo come costruito intorno a due nuclei generatori: i luoghi della poesia civile e la lingua dell’anima. La poesia civile e suoi luoghi si presentano con costanza (almeno sino alla quinta sezione): la città, la folla, il quartiere, i cittadini che attraversano la piazza. Tuttavia il terreno, in qualche misura letterariamente canonico della poesia civile e delle sue figure, è sconvolto alla base da un urgenza che si può chiamare lingua dell’anima, la quale fa propri alcuni elementi tipici della poesia civile per nominarli secondo il proprio “lessico dell’autenticità”. Dalla quinta sezione in poi ( esclusa l’ultima poesia) mi sembra invece preponderante il tentativo di sondare delle strategie linguistiche che la tradizione “letteraria” della preghiera, dell’inno, dell’invocazione etc. mette a disposizione per comunicare il fare anima, ciò non toglie che a tratti insorga la poesia civile con le sue asserzioni (come quando parli del paese occupato), riproducendo, seppur con equilibri diversi, la compresenza di lingua dell’anima e poesia civile.  

   Cos’è una lingua dell’anima? Come si fa a svolgere e rinchiudere nelle parole della lingua occidentale la necessità del “salto”, del prodigio, l’impellenza del fare anima? Per superare l’impasse di una difficile comunione di poesia civile e lingua dell’anima mi sembra attiva una strategia di fondo (più forte sino alla quinta parte): parlare in uno spazio urbano nella lingua dell’anima. Ho cercato di individuare alcune coordinate linguistiche di questo idioma.

1)      La semplificazione sintattica e lessicale. La lingua dell’anima è lingua dell’autenticità attraverso l’umiltà. La lingua rifiuta la distinzione del linguaggio convenzionalmente considerato più consono per la letteratura, che si tratti del linguaggio aulico o di quello altrettanto accademico di certi avanguardismi.

2)      Le parole accoglienti. La lingua dell’anima è lingua della comunanza. Chi parla la lingua dell’ anima deve coabitare. Deve coabitare con la pigrizia, il conformismo, l’asservimento alle logiche dominanti che circola in parole larghe come “amore” “anima” “mondo”, deve riappropriarsene accettando la loro consunzione, il loro deterioramento. Cosa c’è di più deteriorato di un appello al “buon senso”? la lingua dell’anima accetta il contatto epidermico con “il morto” che c’è dentro le parole. La lingua dell’anima non redime né purifica, chi parla la lingua dell’anima pone l’esercizio della tolleranza al centro dell’espressione.

La soggettività. La lingua dell’anima è lingua della spoliazione. La lingua dell’ anima non è lingua dell’intimità con se stessi, (solo nelle due poesie proemiali si percepisce questa intimità). E’ lingua della dispersione, dello scarto ontologico rispetto all’individuazione. Non c’è infatti, nelle tue poesie, frenesia, ansia di una collocazione, di un posizionamento dell’oggetto. La lingua dell’anima è la lingua di un Noi che si sgrana, che non è lo sfondo di una comunità, ma traccia di una partecipazione quieta a qualcosa che non ha frange o margine.

3)      Le immagini e gli elementi dell’indistinzione. La lingua dell’anima è la lingua parlata dall’aria e dall’acqua. L’acquatico, il mare, cioè l’acquatico come immensità dilagante, minacciosa “ma senza volerlo”. L’aereo, anche etimologicamente connesso all’anima, anémos : vento,  psyché: soffio, farfalla. Il cielo come immensità interminabile. Il cielo che s’infila tra le parole e crea correnti d’aria e attese, attraverso le spaziature e gli a capo. Il cielo e l’acquatico che si fondono nell’ultima poesia.

Ho individuato solo due strategie retoriche legate alla  poesia civile, utilizzate, d’altronde, molto meno frequentemente rispetto a Fabrica o a Versi nuovi. In questa nuova raccolta, infatti, la poesia civile mi sembra il luogo della lingua dell’anima, lo sfondo dove essa emerge. La lingua della poesia civile da una parte si fonde nella lingua dell’anima, che con essa ha in comune ad esempio la ricerca di un linguaggio disadorno, con un basso tasso di letterarietà, ma dall’altra le lascia il campo, la poesia civile cerca di stringere addosso all’oggetto, si esalta nell’affermazione apodittica, tutti aspetti che mi sembrano antitetici rispetto agli intenti della lingua dell’anima. 

1)      La rimozione dell’articolo indeterminato o della preposizione articolata, fin dal primo verso. La lingua dell’anima cerca un “individuazione” estranea all’ opzione che sembra sottesa alla lingua occidentale: o parte di un tutto o assoluto, o modello o copia…Rimozione che non è lontana dalla ricerca di una prossimità dell’oggetto, di una tangenza tra verbo-azione e oggetto tipica della poesia civile.

2)      L’inversione, “per tutto tener dentro”, le “mediche analisi”, che io leggo un po’ come uno straniamento minimo, mi ricordo in Versi nuovi “pane guadagnare quotidiano”, disordine che impone una riconsiderazione della convenzionalità dell’ordine e della gerarchia ( che sono in fondo la stessa cosa).

Ci sono varie immagini che mi paiono riproporre una certa omologia rispetto ai nuclei generatori di poesia civile e lingua dell’anima: il cielo e la piazza, il mare e le coste edificate etc. ovviamente ogni immagine ripropone la dicotomia con uno scarto che ne arricchisce il senso, ma non mi appare si arrivi mai ad una negazione delle due componenti, neppure nella seconda parte (dalla quinta sezione in avanti), tranne forse nell’ultima poesia che meriterebbe un discorso a sé così come le due poesie proemiali.

Più di tutte mi pare significativa questa immagine “ – perché - il tale/diceva- cosa vuoi realizzare/ che ne valga la pena/ davvero/ cosa, se non l’amore?-/ E lo diceva/ duro/ come uno che ha voglia/ di perdere tempo/ in cazzate/ eccolo qui/ il numinoso:/ all’angolo di una via/ o nella lacuna/ di una sogno/ una svolta/ dove all’improvviso/ il mare/ si mette a parlare/ con la città/ lingua che s’infila/ tra due palazzi// e se lo diciamo/ è perché esiste davvero/ un mare così/ esiste ed è il mare/ della nostra città/.

Il numinoso nasce dalla poesia civile, dall’affermazione apodittica, sì, sembra proprio la brutalità della poesia civile, ma espressa con la lingua dell’anima (“amore”) a innescare l’immagine. Il numinoso è o all’angolo della via o in sogno, ancora evidente la compresenza dei due nuclei e non l’alternativa che esclude. Tuttavia siamo già nella lingua dell’anima innescata dalla parola larga “amore”, l’istantaneità e la prossimità della visione sono infatti quelli della dimensione prodigiosa da cui parla e che è la lingua dell’anima. Il mare allora può portare la sua lingua nel luogo principe della poesia civile ma non per travolgere i palazzi, ma per mettersi a parlare con la città.

Lo ribadisco, poesia civile\lingua dell’anima sono solo una traccia di lettura quella che vi ho visto io con tutto il mio desiderio di trovare degli spunti di riflessione anche per la mie poesie…

  

 

Francesco Marotta

Note su Lavoro da fare di Biagio Cepollaro

Nell’acqua della prima sorgente

Dunque è ora di fare le cose, come quando si dice: c’è un “lavoro da fare”.

Sono vere queste nostre prove d’amore.

Ora siamo sulla Porta del ritorno e della restituzione.

 

“Fare anima ci suona quasi minaccia”

Riservare ai propri giorni il diritto di ritrovarsi soli con se stessi, mentre il presente frana a ritmo cadenzato di risacca e il suo respiro è una gemma appassita prima ancora di fiorire, l’eco declinante di un tempo in anticipo sulla sua stessa polvere.

E in quel silenzio tendere le mani verso la sorgente, immergerle nell’acqua che resiste e brilla tra pupilla e lingua, per osservare nello specchio albale delle origini l’attimo in cui l’immagine superstite scivola dallo sguardo fino alla parola e, nel farsi segno e voce senza traccia, emerge nell’assoluta libertà di uno stupore nuovo, rinasce nelle lettere dell’unico alfabeto capace di restituire al pensiero un barlume, una sillaba, anche solo un accento dell’indicibile ombra che dimora il rovescio del suo specchio. Perché “senza prodigio non vai / da nessuna parte”, “e se quella è l’anima che nel tempo persiste / a lei va dato ascolto”, è lì che l’occhio posa nella febbre dell’attesa, proprio “su quella apertura / di cielo” al cui richiamo sangue e ragione depongono il rituale che separa, e le pupille scoprono felicità di abisso nel chiarore.  Il prodigio è tutto nella ricerca di una parola che trasformi l’atto della nominazione non in una graduale e perenne processione di dati, in un possesso di certezze immobili, senza il rischio ulteriore dell’acqua quieta che sa farsi uragano, ma in una metamorfosi che si offre nella nudità delle sue forme, per dire l’inesprimibile dell’origine, l’impossibilità del segno e della memoria a contenerla: una parola che “dagli occhi / agli occhi ci riversa un fuoco”, il lampo di un pensiero sciolto dai vincoli del pensiero e del quale inseguiamo lo spazio verbale al suo crearsi, l’evoluzione delle sue erranti cattedrali di fiamma. Il prodigio è proprio in questo “farsi” del poema nuovo, l’atto originario di una creazione che attraversa i territori dell’umano come un desiderio assoluto, senza oggetto e senza carne; una sintesi di  opposti che giustifica la primogenitura del dono, l’offerta nella quale la mano che modella e dà lineamenti e vita alle cose non si distingue dalla coscienza che la guida e la dispone sull’arco del suo lume, ma si scopre della stessa natura delle sostanze che prendono forma nel palmo, dove si anima, insieme al gelo interminato del foglio, tutto l’universo di semi assopiti che contiene e in cui dimora. L’atto allora, come un poiein originario dove il logos non è che parola in ascolto, è una preghiera muta, un “chiedere alle cose / di cambiare e noi / con esse”, perché il reale è un oceano fluttuante di anticipazioni, è acqua increata che parla la lingua delle terre che dovrà varcare, perché in ogni cosa da “fare” si profila un mondo, e il farla è vivere, e vivere è rovesciare all’abbraccio della luce l’esserci del suo nome irrivelato, la sua sostanza ansiosa di mutarsi in vita e mostrarsi negli specchi del giorno. Solo la parola che sa farsi sguardo rende la mano un ponte sugli abissi dell’assenza, sul nulla di nome e di storia che da sempre costringe il canto su rotte di tenebra e abbandono, alla solitudine senza misericordia di un grido privo di ricordi, di un volo che si perde all’orizzonte. “Tutto si dà nel cielo”: “e ora su quel palmo aperto / proviamo a guardarci”.

“Ora il tempo è reale e il viaggio torna a misura umana”

Non vi sono legami, se non d’amore, nell’atto che riscrive la soglia e il sentiero per correre a ritroso il cammino delle sabbie, il luogo metamorfico delle tracce dove il mondo conosciuto già non-è-più, e il non-ancora si offre come un dono condiviso (“occorrono ben due uomini / a portare alla luce / ciò che ostinato resta / nell’ombra”), come la gratuità della nascita che rivelando il volto segreto delle cose, alle cose ci rivela come volti. E se “la voce / che ti dai è la sola che ti tiene in piedi”, perché “ognuno parla davvero / se lo fa / dal chiodo / che un bel giorno / l’ha fissato”, l’atto della scrittura “da fare” non è che la memoria da costruire della parola che manca, un tempo senza difese dove il vissuto cosciente (la storia individuale e collettiva) lascia posto ai deserti che ogni coscienza dissemina tra le pagine della sua vicenda, quando segna margini e confini, incastra in gabbie prive di aperture e di respiro, riduce ogni angolo obliquo, ogni penombra, a immagine lineare del pensiero, riproduce l’universo in forme tutte uguali, senza movimento e senza luce.

Non c’è “maggiore inganno” che “credere di dover dare / senso”, senza immaginare che ogni umana sembianza, ogni vicenda, era solo “nuvola / che al punto esatto di tempo / interiore – che sfugge – / si trasforma in pioggia”. Cos’altro è mai l’acqua se non il corpo stesso della metamorfosi, voce straniera alle stesse parole che la dicono? Non ci saranno partenze né ritorni nel luogo della prima lingua perduta, la lingua materna delle cose; quello che lungo gli anni indossa sembianti di passato e di accaduto, in quella terra è seme, inavvertita estasi di tempo immobile nonostante il divenire, un sentiero che si guarda trascorrere prima che il passo gli dia orme, direzione, moto, rotta, e infine lo cancelli. E quel deserto è il luogo dell’origine, uno spazio inafferrabile dove il silenzio è l’unico legame tra grano e grano di sabbia, perché solo ciò che apparentemente non ha suono, sa già il colore e il profumo della  voce in attesa oltre la “porta”: il luogo della restituzione, la fonte che segna il ritorno della polvere alla dimora delle origini, all’unico labbro dove linfa e arsura solo due tra gli infiniti accenti di uno stesso nome. “Da lì da quell’inizio / non abbiam fatto / che  tornare / in un moto / di infinito / allontanamento: / tu vai incontro / all’origine /invecchiando / e ciò che col tempo / hai imparato / è stato solo parafrasi / di versi / all’origine ascoltati”. Ogni cammino è un varco oltre il limite del tempo: ogni verso è voce che ascolta ciò che il passo si lascia alle sue spalle.

“Perché la vita è più grande di noi”

E’ il fuoco sottile della metamorfosi, il “calore impossibile / dell’origine”, il prodigio che dispiega le sue ali in ogni forma, proprio là dove “il respiro si fonde / con l’aria” e “la mano che stringe / scompare nell’abbraccio”. E’ un prodigio che dischiude allo sguardo gli abissi d’ombra dove la luce osserva il ricrescere febbrile della sua pelle, dove il deserto esiste perché è un migrare eterno verso orizzonti possibili di oasi perdute. La metamorfosi è un rito ininterrotto di passaggio e ogni orma una pagina di storia da inventare, da riscrivere nel chiarore di un pensiero che ha ritrovato il senso del suo essere da sempre anche canto, offerta votiva al signore dei venti, della zolla e delle messi, del mare che si affaccia tra le case e viene a lambire i ricordi distesi al sole. L’altra riva del fiume del pensiero, quella che per millenni la civiltà ha negato e taciuto come un deposito di infanzie mai vissute, è il pozzo a cui il poema attinge pescando echi, seminagioni d’albe racchiuse in lettere di sale: e ora che la sua corrente brucia alle nostre spalle e la frana avanza a ingombrare il guado di secoli morenti, eccolo che sgrana nell’incendio l’unica parola trattenuta, custodita in un angolo di anima quando ancora non sapevamo di essere voce. Voce che legge dentro di sé il libro del mondo e delle stagioni, come un bambino che sogna ciò che per lui dietro i segni si nasconde; che sa disegnare spazi di cielo nella cenere; fare silenzio agli occhi perché nell’occhio parli l’inchiostro rosso che inventa l’onda, la vela e l’ultimo naufragio: rendere l’ascolto un gioco che sacrifica la parola al primo grido che non si fa parola, all’acqua che, prima di rovinare in mare, lascia agli argini memorie di sorgenti. Perché ciò che manca è l’arte smarrita di farsi sguardo, pupilla fiorita dalla maceria, capace di distinguere e custodire la parola essenziale che come un pane antico si parte fra tante mani; capace di nuovo di farne ombra e oro, sangue e grido, argilla e gesto, oceano e vela, deserto e segno: mano che tracciando la rotta si fa rotta, parola che, dicendo il mondo, dice l’essere che in essa si abita all’insaputa della lingua e del pensiero. “Ed è sempre questa la lotta / e vale per ogni età: tra fissità / e mutamento”: la fissità che ipostatizza il reale in schegge museificate di accaduto, dove “l’onda del mondo / s’appiana in risacca di pietra”, e il mutamento, la cifra metamorfica del divenire che ci sostanzia. “Importa possedere corpo che molto / in sangue trasforma e l’accaduto / ringraziare”, importa santificare la “malattia”, non quella visibile, “che le cose rappresenta / e impara come vere”, ma quella che è preghiera sacra d’amore, quel ritrovare l’esistenza, e percorrerla, senza mai distogliere lo sguardo da se stessa, dalla spezia sapiente di aromi che il fumo acre dei giorni porta in dono insieme alla cecità: essere la rosa innamorata del morso della sua stessa spina, l’acqua che emerge e canta il suo esilio, sicura già che il riaffiorare alla luce sarà la visione che colma e appaga il desiderio, e la sua tomba. “Mai / bellezza lo è stato semplicemente / che a lei era affidata la pausa / che fa sentire la musica fatta / di un tocco ripetuto quanto la vita”. Per legge non scritta di sguardo fatto corpo e voce, tutto tende a essere corpo, vita, coscienza migrante dell’esodo e del ritorno: anche la parola, tempio dell’esistenza e del farsi della vera storia, dell’unica conoscenza che ci è data: “sapere cosa davvero sacrificare”. 

“Come può la durata di farfalla saperne di stagioni”

“Lavoro da fare” è un poema abissale, un cantico di offerta e di condivisione riflesso nell’acqua della prima sorgente e dell’ultima riva, è “ricerca di un’altra lingua”, di un alfabeto di voci mai tentate (o conosciute da sempre) che dica attimo per attimo tutto il tempo che serve “per cambiare volto”, il desiderio che in segreto si cova in uno spirito “che manca / per troppa presenza”, in uno sguardo che “non sa / vuota la natura di quella / presenza”. E il desiderio è carne, una creatura che si alimenta del suo fuoco, un bambino sconosciuto la cui nascita coincide con la morte di ogni certezza e di ogni forma consueta, familiare (“abbiamo preso nello stile una strada / solitaria”), con il rischio e l’azzardo estremo (“che una virgola fuori posto / può fare l’esplosione / del testo”); è una creatura di parole senza rotta e senza equilibrio sulle cui labbra ogni verso è un grido o una scheggia di luce strappata al deserto dei giorni; dove pensiero e immagine, nel loro rincorrersi infinito, rifiutano l’abbraccio frontale che fissa ogni forma in un “gesto congelato” e si abbandonano alla febbre della metamorfosi, all’ascolto della musica che viene dalle rovine; dove lo sguardo che dall’ascolto emerge è un’ala ferita, perché non dimentica, dopo aver ripreso il volo, di essere l’unica lingua superstite di “un occidente / indeciso tra sterminio / e centellinato / suicidio collettivo”. Scrivere è dunque esplorare la ferita, leggere il sangue che a tratti riaffiora dai margini già cicatrizzati, sentire la stretta del rimpianto e la speranza, come quando “abbiamo detto all’anima di farsi avanti”, sapendo che “è dalla sua acqua che il fiume s’ingrossa”. Il “lavoro da fare”, allora, è rimembrare il rito perduto, le movenze, i gesti e le voci che dimenticammo proprio quando, per la prima volta, e l’ultima, “fummo costretti a inventarci / qualcosa / che alla fede somigliava / un disperato e impossibile / amore per le altre / creature”: il lavoro da fare è offrire in pasto il nostro corpo, nell’atto stesso della scrittura, alla consapevolezza, accettata come una benedizione di neve, che “noi non siamo / nostri”, che noi non siamo, se non sappiamo renderci sostanza d’alba, cibo di cui si nutre la luce per fiorire. “Il sospetto della bellezza / dell’essere / oggi non è sospetto / ma un’esperienza”: distinguere ciò che avvolge e racchiude le cose nel suo involucro fugace e transitorio dal respiro sottile che pulsa nelle cose come un fuoco, e di questo patire, di questa bellezza farsi carico, del proprio sguardo libero dai mutamenti, della libertà dolente e essenziale di ogni inizio. E solo allora la vita sarà stata vita: la risposta a un richiamo a lungo inascoltato, l’offerta, nel calice fraterno di un verso, di ogni fedeltà e ogni memoria, il solco dove deporre semi di futuro, l’acqua consacrata dei giorni per annegare la morte, per strappare volti ai suoi specchi ardenti.

“Noi andiamo oltre i segni”

Un libro smisurato come una preghiera germogliata dalla passione per la vita, alimentata da una coscienza attenta al transito millenario dei relitti, all’accumulo di macerie della storia; un poema dei doni di cui solo il tempo a venire dirà i confini, disegnerà gli altari, il profilo del volto al cui cospetto piange, ride, grida, ama, implora: il volto eterno, nella sua brevità senza ritorno, dell’umano, dell’essere che riprende a  specchiarsi in ogni fibra di mondo, nella memoria senza segni e senza impronte dell’acqua che, migrando, fiorisce di suoni i deserti che attraversa. L’umano che ad ogni cosa creata dà voce, restituisce la libertà di un dire senza vincoli, essenziale, perché la voce è il segno tangibile della sua presenza, l’atto della sua nascita, la chiave che disserra e sigilla il suo destino. E il verso, allora, è il pane che lievita nel vento, e la mano che lo offre, nel gesto ritrovato del dare, lo consacra come una reliquia, cibo che santifica la vita e il suo immutabile respiro, l’unica traccia condivisa della sua presenza, del suo viaggio, del suo passaggio tra naufragi e voli: mai pietra di confine a ciò che non ha volto e nome, ma sguardo sempre vigile, in ascolto dell’infinito che preme, con le sue lunghe onde, oltre le porte dell’ultimo orizzonte. “Noi andiamo a ringraziare / per essere stati invitati / al banchetto”.

 

Luigi Metropoli

Lavoro da fare: riformulare l'umano.

 

Il Lavoro da fare di Biagio Cepollaro (E-dizioni Poesia Italiana E-book, 2006: www.cepollaro.it/LavFarTe.pdf) è la poesia che si dà nel suo farsi e nel suo aprirsi al futuro. Lavoro da fare come atto quotidiano, semplice, rito che si rinnova ogni mattina, e ogni mattina coincide con il vivere tout court: «calmati e scrivi» (p. 3). Scrivere è «portare a casa / la pelle» (p. 3), è un atto di preservazione dell’umano, del suo stare nel mondo, del suo essere corpo, del suo occupare uno spazio, in una sola parola vivere: «fallo anche solo per non crepare» (p. 3).

Il fare individua nell’operatività la ragione dell’esistenza, per una volta slegata da logiche economiche, ma intesa come atto costitutivo dell’intera vita, come apertura all’insieme delle possibilità e modalità dell’umano: un’operatività inclusiva, in cui voce, scrittura diventano modi e forme di «reintegrazione», nonché riappropriazione da parte dell’uomo della sua vita, disincrostata dalle scorie sovrastrutturali del nostro tempo (si vedano a tal proposito le splendide e necessarie Note per una critica futura dello stesso autore, in particolare la nota 9: www.cepollaro.it/poesiaitaliana/NotCriTe.pdf).

Ecco che la poesia riporta alle origini: ha a che fare con l’ontogenesi culturale, è traccia rizomatica dell’uomo. Poesia che fende, apre crepe nella terra, «poema abissale» (si veda la lettura di Francesco Marotta Nell’acqua della prima sorgente in Letture di Lavoro da fare  www.cepollaro.it/LavFare/TeLetLF.pdf ) e che tuttavia non rinuncia alle sue ragioni operative. Essere operativi in Cepollaro equivale ad essere militanti, senza dover abusare troppo della matrice politica della parola («Reintegrazione non è altro che ricostruzione di una prospettiva, aggiungere una chiave al mazzo delle esperienze possibili, ricondurre il testo alla sua potenzialità morale, psicologica, politica …, appunto», Note per una critica futura, p. 11). Non è forse una scelta di campo netta, rigorosa, quella di scegliere i margini? Non lo è forse il suo coraggio di intraprendere un’avventura poetica ed editoriale esclusivamente sul web? La scelta dell’autore di posizionarsi ai margini della poesia (data in pasto ad un’editoria spesso senza scrupoli) per concepire una forma editoriale inedita, fuori dal coro, gratuita e accessibile a qualsiasi lettore dotato di un collegamento internet, è senza dubbio la formula più estrema di protesta e dissidenza adottata nel panorama poetico-editoriale italiano. Le stesse scelte editoriali vanno in questa direzione: pubblicazioni di inediti di giovani ed importanti poeti italiani, nonché ristampe di testi ormai introvabili (Pseudobaudelaire di Corrado Costa, Schedario di Giuliano Mesa, Camera Iperbarica di Mariano Baino…), la rivista on-line Poesia da fare  www.cepollaro.it/poesiaitaliana/rivista/rivista.htm .

Stare ai margini vuol dire, da questa prospettiva, anche andare oltre, essere sentinella e la poesia della raccolta in questione mira principalmente a questo: «dire oltre se stessa», uscire fuori, darsi agli altri, «fare anima» (p. 10). Il tono è quello del recitativo: una voce che si pone tra la preghiera, la meditazione (si leggano le note di Giuliano Mesa e Andrea Inglese in Letture di Lavoro da fare) e l’esortazione (che reca in sé il germe della praxis). «Alla vita non si può / chiedere meno / di essere viva» (p. 23), dunque una delle cose da fare è «che l’umano / è da ampliare» (p. 22). Tuttavia questo «è lavoro da fare / non da soli» (p. 22), infatti «noi cerchiamo di capire la parola / che salvandoci salvi i prossimi» (p. 36): un chiaro segno della volontà di estendere il singolare, di trasformare una sola voce in un coro. Quello di Cepollaro è un attacco al presente, uno scuotimento per affrontare e magari inventare il futuro.

«La barbarie inesorabile / avanza / […] / in coda ad un occidente / indeciso tra sterminio / e centellinato / suicidio collettivo» (p. 20). «Nella storia occidentale per Cepollaro è l’essere travolti da uno sfrenato individualismo a chiudere ogni strada alla conoscenza» (dalla postfazione di Florinda Fusco). Nondimeno il «suicidio collettivo» rimanda a certi moniti provenienti da intellettuali dissidenti o critici dell’Occidente. Non è avventato parlare della poesia di Cepollaro come di un vigile, acuto pensiero critico, che quasi fa da pendant “creativo” alle riflessioni analitiche di studiosi ed intellettuali che operano nel campo dell’economia e della sociologia: si può individuare nell’opera del Nostro quella “ragionevolezza” che si contrappone alla “razionalità”, omicida dell’umano, in un’adiacenza teorica alle riflessioni di Latouche.

Il linguaggio adoperato è lo specchio di tale orientamento: una parola che assume spazialità in una voce, che si fa prassi pensante (e parlante), una voce che attinge al parlato, che fa teatro, che sa farsi “anima” per insinuarsi ed annullare distanze, a rischio di deformare il senso, di giocare «nell’inganno e nel travestimento» (p. 39).

(Tale nota è uscita sul blog Erodiade  http://erodiade.splinder.com/  il 12 novembre 2006)